Sono innumerevoli i motivi per cui vale la pena produrre, realizzare e vedere un film. Alle volte prevale la nona musa, altre l’intrattenimento e infine ci sono storie che vale la pena raccontare, quelle a cui dobbiamo la formula tratto da una storia vera e l’epilogo narrato con brevi didascalie e foto sui titoli di coda: Freeheld ricade decisamente in quest’ultimo gruppo.
Questa storia si è già guadagnata un Oscar nel 2008, grazie al cortometraggio documentario girato da Cynthia Wade per raccontare e ricordare la battaglia di Laurel Hester, agente di polizia a Ocean County, New Jersey. L’intento qui è stato quello di trasformare il documentario in fiction, un formato di nicchia in uno accessibile al grande pubblico, che magari occhieggiasse anche all’Academy, dati i temi trattati.
Purtroppo però si è scelto di valorizzare la storia nella maniera canonica e stereotipata che ci aspettiamo di fronte alla tripletta malattia, omosessualità e diritti negati sin dai tempi di Philadelphia, facendo ricadere il film nel gorgo di una banalità e di uno stereotipo che proprio non dovrebbero appartenergli.
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