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amori adolescenziali, Beanie Feldstein, Billie Lourd, commedia scolastica, Diana Silvers, Jason Sudeikis, Jessica Williams, Kaitlyn Dever, Katie Silberman, Netflix, Olivia Wilde, Skyler Gisondo
Gli esami non finiscono mai, così come è inestinguibile la passione di talune persone (vedi la sottoscritta) per le commedie più o meno romantiche e più o meno scolastiche. Una volta ci si sarebbe dovuti imbarazzare di fronte a simili trastulli, ma in anni recenti qualcuno è giunto in soccorso mio e degli insospettabili amanti del genere coniando il termine guilty pleasure. La verità è che a me questi i film e i loro passaggi obbligati e rituali (il ballo di fine anno, la litigata cosmica con i genitori e/o amici, il momento in cui la protagonista si rende conto di essere una stronza e che x figo è una merda e y meno figo e suo migliore amico le vuole bene) piacciono, punto.
Non sono stati anni facili perché il genere ha conosciuto una crisi quantitativa ma soprattutto creativa e di film davvero esaltanti se ne sono visti pochi (il migliore degli ultimi anni rimane The Edge of Seventeen) e persino la qualità delle ciofeche è diventata così infima da mettere a dura prova la sopportazione dello spettatore. Grande salvatrice del genere ma anche grande dispensatrice di sordide cazzate è stata Netflix, che a quanto pare conoscendo bene le mie e vostre visioni ritiene che sia commercialmente producente sfornare una commedia scolastica ogni quadrimestre, in un eterno tentativo di imbroccare quella giusta. Sembra una missione impossibile fino all’arrivo di La rivincita delle sfigate (Booksmart) in uscita questa settimana in Italia dopo aver conquistato i cinefili di mezzo mondo. Bello sì, ma rimango scettica.
Dietro il successo di Booksmart ci sono tanti fattori, ma soprattutto un nome: quello di Olivia Wilde, attrice lanciata dalla serie TV di House MD nel ruolo di Tredici e poi diventata un’icona di bellezza dalla carriera non esattamente memorabile. Il suo approdo dietro alla macchina da presa sembra averle riservato miglior fortuna, anche considerando una congiuntura particolare del mondo culturale statunitense in cui qualche donna regista si cerca anche di produrla, anche solo per questioni di facciata. Così forte di una sceneggiatura scritta da tre autrici esordienti e Katie Silberman (che per Netflix aveva già scritto Isn’t it romantic?) e del sostegno economico non scontato di servizio di straming, l’attrice si è messa dietro la cinepresa, dirigendo quello che si è rivelato essere un piccolo caso nella comunità cinefila internazionale.
Booksmart racconta della folle notte di Amy e Molly, due studentesse dai voti eccellenti ed estremamente orgogliose ed esplicite del loro essere secchione. Ammesse entrambe a un college della Ivy League (la fascia più prestigiosa dell’educazione universitaria statunitense) le due si ritengono soddisfatte delle scelte fatte: studio duro, rapporto simbiontico reciproco, atteggiamento di sufficienza rispetto allo zoo scolastico che le circonda, che considerano destinato a un futuro squallido in college di serie B. Il cortocircuito avviene quando Molly scopre all’improvviso che alcuni degli studenti da lei più biasimati per la loro propensione a feste e promiscuità si preparano a partire per Yale esattamente come lei o per istituti altrettanto prestigiosi.
Così nella notte prima della cerimonia dei diplomi, Molly trascina Amy in una sorta di recupero a tappe forzate di tutto quelle che si sono perse. Il piano è quello di imbucarsi alla festa più giusta di tutte, quella in casa del figo della scuola, ma le due non conoscono nemmeno il suo indirizzo. Segue prevedibile ma comunque divertente escalation di situazioni paradossali, assurde e via via sempre più irrealistiche in cui Amy e Molly capiscono di essere booksmart, ovvero intelligenti sì, ma ricolme di quella conoscenza teorica maturata sui libri che le rende ingenue e pasticcione nella realtà.
Il punto forte della pellicola è il gruppone di giovani interpreti e i “tipi scolastici” che rappresentano. A partire dalle due protagoniste, si tratta di giovani attori capaci e in grado di comporre una vasta fenomenologia fisica, caratteriale, sessuale e sociale. C’è la studentessa straba e ricchissima, la secchiona lesbica un po’ imbranata, la ragazza androgina che mette tutti a suo agio, il figo della scuola che si ripassa tutte le tipe più belle, lo studente con una fissa per la professoressa afroamericana che sa tutto della vita e via dicendo. La politica “zero cazzate” sul set di Olivia Wilde (una professionista turbo vegana, turbo attivista, turbo tutto) funziona molto bene nel mettere a proprio agio i giovani attori e permettere loro di sperimentare con i rispettivi ruoli, ma soprattutto di condurre lo stereotipo iniziale in direzioni inaspettate. Per fare un esempio, la fisicità di Beanie Feldstein non viene mai fatta oggetto di battute né da parte sua né da parte dei compagni. Il risultato è forse un po’ irrealistico, ma anche potente, perché mette un corpo sovrappeso davvero sullo stesso livello degli altri, facendolo sfuggire dal solito assunto che ciccia generi simpatia ma azzeri l’attrazione fisica che lo stesso esercita.
A ben vedere però la svolta inaspettata del film – ovvero il fatto che tutti i compagni svogliati e casinari di Molly e Amy in realtà sono dinamici, coscienziosi e persino delle bravissime persone – è lo stereotipo regnante negli ultimi anni in questo genere, complice anche la forte influenza di Netflix nella realizzazione di un alto numero di commedie scolastiche. È da un po’ che questo genere di film traccia la parabola di una protagonista che si sente diversa e vittima e pian piano scopre di essere stata lei pregiudizievole e diciamolo, anche un po’ stronza. Il conflitto tra Amy e Molly e il resto della scuola e quello silenzioso ma sempre presente tra le due non è niente di nuovo, pur funzionando bene per una buona metà del film.
Nella seconda parte purtroppo ho avuto l’impressione che tendono a darmi quasi tutti i prodotti Netflix, dalle serie TV ai film: si comincia con premesse interessanti ed “esplosive”, salvo poi virare sul sicuro, il rassicurante e il beneducato. Mi viene in mente per esempio la serie Netflix Sex Education, che con Booksmart condivide tanti pregi e tanti difetti. Man mano che il film si avvia alla conclusione perde di smalto iniziale perché è costretto ad affrontare dei passaggi obbligati che sapevamo dall’inizio sarebbero arrivati e per di più lo fa in maniera così iperpositivista dal passare via via dall’irrealistico al favolistico: tutti sono brave persone, tutti escono migliorati dalla notte di baldoria, tutti immancabilmente finiscono accoppiati e contenti. In realtà qualche problemino di sceneggiatura si riscontra sin da subito, perché il fluire della notte di Amy e Molly non è naturale, bensì sostenuto da una serie di coincidenze e macGuffin che aiutano il film in procinto di arenarsi a proseguire.
Quindi viene da chiedersi: com’è che alla sottoscritta ha suscitato tante perplessità quando è stato tanto osannato? Questo secondo me è il passaggio più interessante. Posto che Booksmart è comunque un buon film e posto che la concorrenza interna ed esterna a Netflix è talmente miserevole che basta poco per spiccare, questo film ha saputo arruffianarsi il suo pubblico di riferimento. Un mezzo dubbio mi era già venuto prima di pigiare play vedendo chi fossero i suoi sostenitori più ardenti tra i critici e le vecchie conoscenze, ma quando è arrivata la scena del karaoke arrabbiato sulle hit di Alanis Morisette, dopo occhiolino a Una mamma per amica e altre decine di riferimenti culturali dello scorso decennio, ho avuto la mia conferma. Non ho mai dovuto googlare un riferimento che fosse uno, nonostante adolescente non lo sia da un pezzo, perché questo film non parla mica agli adolescenti che stanno per diplomarsi, macché. Questo nonostante sia piastrellato di una sclerotica colonna sonora musicalmente più che attuale che soffre di skip congenito; una traccia ogni cinque minuti, iniziata e scartata nel giro di 30 secondi: fastidiosissimo.
La rivincita delle sfigate è pensato esattamente per la mia di anagrafica: quella dei cinefili che si aggirano tra i 20 e 30/35? anni, coloro che si sentono superiori a questo genere di pellicole, salvo poi spararsele tutte con il pretesto del guilty pleasure. Evidentemente Netflix ha macinato i suoi big data e tirato fuori un inaspettato profilo di spettatore di questi film, agendo di conseguenza. Il risultato in termini di popolarità le dà ampiamente ragione.
Insomma, ragionandoci a mente fredda Booksmart fa capire a persone dai gusti simili ai miei quanta ingenuità ci sia dietro il nostro distanziarci da pellicole di cui siamo avidi consumatori. Se guardato dalla giusta prospettiva, rende palese quanto siamo dei Molly e delle Amy e quanto, sin dai tempi di Gilmore Girls, desideriamo avere quella parlata di interazione amicale di sagacia, codici e riferimenti interni e quanto i nuovi costruttori dello scenario cinematografico e televisivo sappiano leggerci dentro, o quanto meno colpire e affondare al meglio sulla base dei nostri dati di visione e consumo. Come alcuni di voi sapranno, uno dei miei cult di riferimento in questo genere è D.U.F.F., che ormai è un po’ il nonno di questi prodotti per impostazione (la lei bruttina che si sente vittima e si riscopre un po’ stronza), che purtroppo non ha potuto godere di una produzione altrettanto ricercata e di un cast all’altezza. Waiting for justice for Mae Whitman.