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Andrew Buchan, c'e' anche un po' d'Italia, Eddie Marsan, film col dramma dentro, finale con mazzata, Joanne Froggatt, Karen Drury, piangerone, tristezza a palate, Venezia 70
Perdonandogli il trappolone ortografico che il suo nome tende sempre all’ignaro scrivente, Uberto Pasolini è una figura che ogni tanto emerge dalle quinte del cinema europeo. Pur essendo italiano infatti nella sua attività di produttore prima e regista poi c’è veramente poco di assimilabile all’attuale (desolante) orizzonte cinematografico italiano.
Still Life, nato come progetto da produrre di cui poi ha deciso di curare anche la regia, è uno dei pochi titoli che, dopo il passaggio a Venezia 70, ha lasciato un’impressione positiva a livello internazionale. Inizialmente non ero esattamente in prima fila per recuperare un film autoriale basato sul lavoro dei messi comunali che cercano di rintracciare i parenti di coloro che sono morti in solitudine (l’allegria che scorre a fiumi!), poi però la curiosità di vedere Eddie Marsan nel suo primo ruolo cinematografico da protagonista, alla vigilia della sua partecipazione in “Jonathan Strange & Mr. Norrell” della BBC ha avuto la meglio.
Consiglio: per il bene dei motori di ricerca e per estensione di tutti noi, magari la prossima volta se si va a Venezia è meglio scegliere un titolo diverso da quello con cui un altro film ha vinto il Leone d’Oro un paio di anni prima.
Curioso come Eddie Marsan, attore inglese che ha vinto tanto e lavorato bene con molti nomi di peso della cinematografica anglofona, non avesse mai avuto un ruolo da protagonista. Questo ruolo invece Pasolini dice di averlo scritto pensando a lui e, dopo aver visto la pellicola, bisogna riconoscergli di aver avuto l’occhio lungo.
John May è un personaggio difficile, la summa di un’emotività sviluppatissima ma difficilmente rilevabile ad occhio nudo, quella che permea tanti abitanti di Albione (due le opzioni: farsi degli amici inglesi e osservarli per anni mentre tentano di non affliggervi con le loro emozioni o seguire quello stupendo bigino che è Very British Problems).
È un impiegato e un uomo preciso, metodico, spartano nei gesti e nei gusti. Un uomo apparentemente incolore, solitario ma senza disperazione o angoscia, dato che il contatto umano lo sviluppa coi defunti di cui cerca i parenti. John May è lo sciamano dimenticato dell’epoca moderna, colui che assolve il compito della memoria in una società che più volte gli ribadisce come il valore dell’essere umano sia misurabile con criteri economici o di reti sociali sviluppate e che la possibilità di essere onorati nella morte e ricordati bisogna guadagnarsela in vita.
Il grande plauso alla riuscita del film va all’interpretazione minimale di Eddie Marsan che, impossibilitato ad esprimere i sentimenti del personaggio in maniera diretta, li lascia affiorare dalla postura, dai tratti facciali, dai movimenti sempre uguali a se stessi compiuti per guidare la comprensione dello spettatore. Quando poi l’indagine su un ubriacone suo dirimpettaio lo porta a cercare i suoi congiunti sparsi per il Paese apprende via via un approccio più diretto e sociale alla vita stessa, ed è proprio l’interruzione della sua routine e dei suoi gesti a comunicarcelo in maniera squisitamente cinematografica. Purtroppo il pubblicizzatissimo coinvolgimento di Joanne Froggatt (Anna di Downton Abbey) non può dirsi altrettanto entusiasmante, dato che si tratta del suo ennesimo ruolo da giovane donna i cui tratti distintivi sono l’estrema dolcezza e un potenziale compagno ben più anziano di lei.
A Uberto Pasolini va invece l’indubbio merito di aver tratto da un articolo su un mestiere curioso un film a metà strada tra “Departures” e “Le Conseguenze dell’Amore”, con in più un’innegabile britannicità sempre in bilico tra l’affettuoso e lo straziante. Le sue riflessioni sulla solitudine (più posizionate sulla descrizione dell’equilibrio emotivo che alcuni sono capaci di raggiungere e mantenere in solitaria, senza mai prestare il fianco a una posizione critica) e sul valore della vita umana e della memoria sono essenziali e universali, anche se forse sul finale è abbastanza intuibile quale risoluzione Pasolini abbia scelto per il suo personaggio. A metà film è già intuibile come verrà organizzata visivamente la scena di chiusura, un ingentilimento che forse avrei preferito non vedere per non guastare l’amarissimo finale realista. Il vero valore del film sta a mio parere nelle piccole scene in cui John comprende l’abisso che lo distanzia dal suo interlocutore che per spiegargli una situazione familiare o un’emozione gli replica “sa com’è” e invece John no, non lo sa. Tuttavia indagando sugli eccessi di violenza e amore del suo ultimo caso, Billy Stokes (a lui antitetico e speculare, come i due appartamenti suggeriscono), comincia a scoprirlo per interposta persona, tanto da definirlo “amico”. La regia accompagna questa progressiva scoperta emotiva ritraendo il mondo dal punto di vista di John, uscendo raramente dai suoi primi piani o dalla rappresentazione degli altri attraverso il suo campo visivo. Le inquadrature sono statiche, la narrazione lenta e decisamente visiva, il respiro autoriale e saggiamente votato a contenere le spese di un budget limitato.
Per questo motivo mi ha stupito la campagna pubblicitaria televisiva piuttosto insistente, per non dire ingannevole. Non che lo debbano presentare come il memento mori di Natale, però definirlo dolce e il film che a Natale vi scalderà il cuore non è proprio corretto. Se sotto le feste uno vuole farsi venire delle tremende angosce esistenziali e il piangerone al cinema, deve farlo consapevolmente. Per esempio anche escludendo il finale, chiunque abbia un buon rapporto con internet (e quindi per estensione coi gatti) non potrà che provare un lungo brivido di terrore di fronte alla storia di Susie.
Lo vado a vedere? “Still Life” è davvero un piccolo film ottimamente realizzato che merita una visione, ma solo da chi è immunizzato contro la tristezza a palate che il cinema autoriale riesce sempre a cavar fuori. Meno rassicurante di “Departures” e meno disfattista de “Le Conseguenze dell’Amore”, è il film di Natale di cui ama e apprezza il cinema autoriale europeo, l’inglesitudine o ha voglia di saggiare il talento del futuro Mr. Norrell.
Ci shippo qualcuno? Macché, macché, qui siamo proprio a livello emozionalità repressa.
Coeffienciente fazzolettini? Non è che manchino di momenti di tenerezza e soffusa pastellosità, però se poi sul finale ti tira una mazzata, il fazzoletto serve lo stesso.