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Daniel Day-Lewis, David Strathairn, Deve far male!, fotografia leccatissima, Hal Holbrook, Janusz Kaminski, Jared Harris, Joanna Johnston, John Williams, Joseph Gordon-Levitt, Lee Pace, Pierfrancesco Favino, political drama, Sally Field, Steven Spielberg, Team Gerontofilia, Team Vegi, Tommy Lee Jones, Tony Kushner, vincitore di premio a forma di qualcosa di un metallo solitamente dorato
Lungamente indecisa se affrontare o meno l’ultima fatica di Steven Spielberg in forma di recensione o commento, ho optato per la prima, decidendo però di procedere in modo un po’ diverso dal solito.
Lincoln è un film molto sopra la media, considerandolo nell’insieme del suo lato tecnico e recitativo. L’unica riserva possibile da obiettare alla visione sta nella lunghezza, nell’essere prevalentemente parlato (e quindi meno dinamico rispetto ad altre pellicole del regista) e nella complessità politica della votazione riguardante l’approvazione del tredicesimo emendamento della Costituzione americana, quello che abolì la schiavitù nel Paese. Quindi, a patto di non soffrire troppo nella comprensione dei film molto parlati o molto lunghi (insomma, se non andate al cinema solo per vedere gente che si tira pugni fortissimi), è un film molto valido.

Un periodo terribile per la tag “fotografia leccatissima”, che non ha un attimo di pace.
Però c’è un motivo se altrove in una votazione numerica gli ho dato a malapena la sufficienza. Un motivo molto articolato e in parte dovuto al mio essere una scassacoglioni una persona fortemente polemica una persona molto riflessiva nel post visione. Se anche voi siete parecchio…riflessivi (o se siete degli stalker o state aspettando che vi si scarichi la puntata di qualcosa e nessun altro blog interessante ha aggiornato dall’ultima volta che lo avete consultato), trovate tutto il mio “però” a seguire.
Dopo tanti fallimenti e risultati francamente imbarazzanti, Steven Spielberg c’è finalmente riuscito: Lincoln è il film acchiappa-premi che tentava di sfornare da anni, stavolta senza farsi sgamare.
Non che ci sia niente di male a impostare regia, montaggio, fotografia, cast, trucco&parrucco nella visione classica da grande storia americana raccontata alle genti. Quando appoggio il fondo schiena in sala in attesa di un film di Spielberg non è che l’innovazione e la rottura del canone figurino ai primi posti tra le mie aspettative. Il punto è che se da una parte il genere biografico/storico incentrato su una figura praticamente mitologica porta a raggiungere alla perfezione lo scopo di regista e produttori (e figura una Kennedy, tra i produttori!), dall’altra l’approccio così calcolatore incide pesantemente sulla riuscita stessa del ritratto.
Tutto questo è davvero spiacevole, anche perché il film, in fondo, la voglia di fare qualcosa di diverso ha dimostrato di averla. Inizialmente infatti la sceneggiatura di Tony Kushner era un mostro di oltre 500 pagine e pare sia stato lo stesso Spielberg ad avere l’idea di concentrare il film sugli ultimi drammatici quattro mesi di vita del presidente, stretto tra drammi familiari, la carneficina della guerra d’indipendenza e il conflitto politico per l’abolizione della schiavitù.
Il punto è che, checché ne dicano loro, l’ambiguità e la complessità della fonte originale (il tomo storico di oltre 800 pagine “Team of Rivals: The Political Genius of Abraham Lincoln” di Doris Kearns Goodwinche) scompaiono di fronte alla celebrazione del personaggio. Stando allo sceneggiatore:
non ha voluto occultare il fatto che Lincoln pretese poteri eccezionali durante la guerra, i più draconiani mai attribuiti a un Presidente degli Stati Uniti, inclusa la sospensione dell’habeas corpus e il potere assoluto di censura sui mezzi di comunicazione.
Ma io mi chiedo: si percepiscono di più questi accenni (peraltro del tutto marginali come minutaggio e disposizione nell’economia narrativa della storia) o la straordinarietà positiva di un uomo?
Ve lo chiedo alla luce della prima scena, in cui un presidente su una sorta di palchetto nel mezzo di un campo di battaglia ci viene introdotto da una serie di entusiasti (dei fanboy fatti e finiti) che lo interrogano e citano suoi discorsi a memoria.
Ve lo chiedo alla luce di un film che dispone i confronti dentro e fuori il Gabinetto presidenziale in modo che ogni volta che si accenna alla compravendita di voti messa in atto per ottenere la maggioranza al Congresso, subito arrivi il controbilanciamento della citazione storica di un famoso discorso del presidente o il continuo dimostrare quanto, più che un politico manipolatore, sia un uomo che soffre.
Se poi ci fate caso, a descriverlo come calcolatore e manipolatorio sono quasi sempre gli antagonisti, i personaggi più sgradevoli (su tutti il democratico interpretato da Lee Peace) o i suoi alleati quando cadono in una posizione che, alla luce dell’attuale posizione sulla schiavitù, è quella del torto. Esempio cardine di questa costruzione (e della paraculaggine estrema del film) è la scena cardine del dramma familiare, quella in cui la moglie Mary Todd Lincoln (una Sally Field che mi è parsa parecchio sottovalutata, dato che nel suo personaggio invece le contraddizioni, talvolta crude, ci sono tutte, senza sconti) accusa il marito di non aver sofferto abbastanza per la morte del figlio. Anche senza contare la dinamica della scena, teatrale e posticcia (una cosa tipo “Fa male!” “DEVE FAR MALE!”), questo aspro confronto trasuda drammaticità voluta e ricercata, di quelle scene che mostri come highlights prima della premiazione agli Oscar. Finta. Per questo poco coinvolgente. Con l’aggravante che ancora una volta il film fa di tutto per dimostrarci che Lincoln invece è più che empatico e che, all’interno della coppia, è lui a provare davvero il dolore della perdita, un personalissimo dolore ben più nobile di quello della moglie.
Meriterebbe poi una menzione speciale la scena della fiammella nella lampada, che sembra piazzata lì giusto per essere citata come esempio di virtuosismo cinematografico. Però ci passerò sopra perché la virata didattico-morale della frase che chiude il film (specie nel contesto attuale) è molto, molto più irritante.

Della pervicacia con cui s’insegue sempre il profilo iconico in ogni inquadratura
Insomma, il film scolpisce più una monumentale e fredda statua come quella del Lincoln Memorial, più che un caldo ritratto di contraddizione umana, dato l’impegno profuso nel rendere aurea anche la sfera degli affetti alla marito fedele, padre amorevole, genitore devoto. Tutto questo discorso, più in piccolo, può essere replicato per Thaddeus Stevens (contate che è pure interpretato da un’istituzione come Tommy Lee Jones). Forse non è immediatamente percepibile, dato che la storia in sé è eccezionale (e molto interessante); il punto è che riflettendo sull’atteggiamento verso il personaggio, non saranno la camminata storta o l’umorismo di Lincoln a rendere il ritratto non dico realistico, ma almeno comprensivo di zone d’ombra.
Le uniche ombre in Lincoln sono quelle fornite dagli antagonisti (o presunti tali), quando hanno abbastanza tempo da uscire dal semplice ruolo di nemico del Presidente. Per questo, a mio parere, sono infinitamente più interessanti i ritratti della moglie, di William Henry Seward (grazie a una prova meno acclamata e marcata ma decisamente meritoria di David Strathairn) o dell’appena accennato eppure rilevante comandante Ulysses S. Grant (e non lo dico solo perché l’apparizione di Jared Harris mi ha per un attimo illusa che il tutto si rivelasse una sorta di hystorical sci-fi in cui Mr. Jones tentava di alterare il futuro tornando nel passato per modificarlo).
Sempre parlando di ombre, difficile tralasciare questa fotografia scura, ombreggiata, a tratti polverosa, in cui spesso Lincoln sembra l’unica fonte di luce presente, nonostante il suo aspetto austero e cupo. Sempre sotto la voce delle fotografie leccatissime di quest’anno, ma continuo a tifare per Skyfall, che l’ombrina sulla metà del viso del Presidente che sta prendendo una decisione storica non mi ha esaltato tanto quanto la scena della villa. Sulla colonna sonora invece voglio dire tutto il peggio: un’accozzaglia di strumentali solenni e da sottolineatura del momento storico, che non fanno che aggravare il contegno già altezzoso del film. Terribile.
Stavolta ho qualcosa da ridire anche sul trucco&parrucco. Vi lascio immaginare il livello di dettaglio di parrucche e acconciature, dato anche il budget a disposizione. Quello che mi ha indispettito è stato tutto il clamore sul make up di Cloud Atlas quando, su uno schermo di media grandezza e tutto fuorché HD, era più volte chiaramente evidente che Day-Lewis aveva su l’ombretto nero/grigiastro o il matitone per far sembrare gli occhi affossati. La cosa mi ha sinceramente lasciato basita, dato che make up invecchianti e “deformanti” così palesi si vedono solo in film di livello ben più inferiore.
Sul reparto costumi è evidente l’intento di essere il più possibile aderenti alla realtà, anche a discapito di qualche guizzo artistico che di solito questo genere di pellicola si concede. In particolare ho apprezzato molto la scelta di far utilizzare continuamente ai protagonisti scialli e calzettoni di lana, proprio a sottolineare la rigidità della vita dell’epoca e via via la fragilità di fisici ormai non più giovanissimi.
Lo vado a vedere? Sicuramente non è tempo perso e l’acclamazione della critica americana non è dovuta solo a un inevitabile coinvolgimento emotivo (anche se un po’ di cattiveria in più me la sarei aspettata). Se però vi infastidiscono un po’ certi atteggiamenti calcolati e, ancor peggio, didattici, o sperate in un ritratto del Presidente con molto contraddittorio, forse troverete più risposte nella versione cacciatore di vampiri.
Ci shippo qualcuno? Qui siamo in pieno campo geriatrico, però se ci vedete qualcosa tra Seward e Lincoln non vi posso rimproverare. Personalmente, ho notato qualche ammiccatina tra Stevens e Mary.
Il doppiaggio italiano? Non sono tra gli oltranzisti della lingua originale, specie per chi non la conosce e si ritrova a dover seguire un intreccio politico non così lineare. Sono però della scuola di pensiero che il doppiaggio lo devono fare i doppiatori e che gli attori vadano interpellati solo in caso di eccezionale bravura.
Diciamocelo: il particolare accento cadenzato/in leggerissimo falsetto che adotta Day-Lewis aggiunge qualcosa alla visione solo se uno ha una padronanza dell’inglese tale da coglierlo, abilità non universale. D’altra parte, toglie molto alla versione italiana il doppiaggio di Lincoln di Pierfrancesco Favino, decisamente artificioso e stridente con la naturalezza delle espressioni dello straordinario Day-Lewis, specie nelle svolte più concitate. Tiro a indovinare: problemi a seguire il ritmo tra cuffia e microfono, recitando le battute in sincro, dovendogli pure dare la tonalità adatta, partendo da un audio originale molto, molto particolare? Forse.
Sta di fatto che i doppiatori dovrebbero star lì a far quello, essendo richiesto alla loro professionalità di barcamenarsi tra queste problematiche e ottenere un parlato fluido.
Qui la brevissima recensione su LoudVision.
Bella recensione, complimenti!