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loup1La vecchiaia spaventa molti: il corpo decade, la mente cade in fallo, la malattia avanza e, in campo cinematografico, il compromesso annienta la coerenza. Più le decadi di carriera davanti e dietro la macchina da presa aumentano più è difficile continuare a governare la propria produzione con coerenza, sia per quanto riguarda la qualità che per quanto concerne i contenuti. Chiedetelo a Jean-Jacques Annaud, ad esempio: un regista il cui film forse più famoso, L’Amante, è ancora proibito in Cina. Nonostante questo e le precedenti dichiarazioni piccate verso i vertici politici cinesi, il regista francese ha accettato un cospicuo finanziamento sino-francese per portare su schermo Il Totem del Lupo, il più grande successo editoriale cinese dai tempi del libretto di Mao.


Scritto sotto pseudonimo da Jiang Rong per paura di ripercussioni da parte del Partito e diventato una delle letture più diffuse in Cina, il Totem del Lupo (da noi pubblicato da Mondadori) è una storia basata su esperienze personali dello scrittore, capace di fondere i problemi della Cina post rivoluzione culturale – in cui le differenze culturali vengono appiattite in nome di un’omogenea efficenza centralista – con quelli della Cina attuale, incapace di ricorrere la perenne crescita economica a doppia cifra senza distruggere il suo stesso Paese a livello ambientale.
Basta avere un po’ di familiarità con cinema o letteratura cinese del post rivoluzione per sentire nei toni e nelle svolte della storia di Chen Zhen un sapore tipico delle produzioni del Paese. Studente fresco di rivoluzione e desideroso di rendersi utile alla causa, viene spedito insieme ad alcuni compagni nelle regioni remote della Mongolia per insegnare a un gruppo di pastori nomadi a leggere e scrivere il cinese.

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Lo scontro tra due culture ed etnie così diverse (da una parte gli Han, l’etnia prevalente in Cina, che si sentono portatori di modernità e progresso, dall’altra i Mongoli, considerati primitivi ma profondi conoscitori del territorio e dei suoi equilibri) crea inevitabilmente attrito e fascinazione, in una terra di sconfinate distese erbose e creature selvagge, dove regnano i branchi di lupi, temuti, rispettati e considerati come guide ed emanazioni di una divinità superiore.
In questo contesto millenario ma irrimediabilmente compromesso, Chen Zhen non salta nemmeno un passaggio dell’eroe per caso, arrivato per insegnare e costretto ad ammettere di dover imparare, prima impaurito poi ammirato dai lupi tanto da finire per addomesticarne di nascosto uno, mentre la stretta del governo centrale distrugge irrimediabilmente quel microcosmo in cui Zhen vorrebbe inserirsi.

In tutto questo dove è finito Jean-Jaques Annaud? Sostanzialmente non è pervenuto, tanto il film è contaminato da una certa retorica pacatamente critica verso il passato e fortemente concentrata sul grandeur registico delle riprese, un qualcosa che ha contaminato anche il cinema di un altro grandissimo del passato, Zhang Yimou. Il film potrebbe tranquillamente essere suo, da quanto è inesistente la sfumatura europea di Annaud, una volontà vagamente critica, una presa di distanza di qualche tipo dalla storia.

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Al contrario, il regista è completamente al servizio di essa, immerso nelle complicate riprese che coinvolgono veri lupi e cavalli al galoppo, salvo poi inserire tremende aggiunte animalesche in computer grafica che con la loro oscena pacchianeria finiscono per dare anche quel tocco insapevolmente kitsch che tanti film cinesi finiscono per avere.

 

Il problema molto sentito dell’inquinamento ambientale e dell’impatto sui territori del progresso economico fornisce ovviamente una chiave di lettura attuale e angosciante per il popolo cinese e per noi, ma dov’è la forza espositiva di un film che presenta scene teoricamente crude come l’uccisione di un’intera annata di cuccioli di lupo, tenuti per la coda roteandoli e poi lanciati nel vuoto? Non pervenuta, affogata in un’atmosfera melodrammatica che è da sempre un marchio distintivo di un certo cinema cinese. Questo però non è un Addio mia Concubina, è poco più di una favola per bambini in cui l’eroe viene sempre assolto dallo sconvolgente numero di stronzate che riesce ad infilare e con lui tutto il sistema che ha distrutto la Mongolia. Nonostante tutto suggerisca un risultato finale catastrofico, nessuno si prende davvero la briga di dire: sì, è la fine. No, c’era un problema, l’abbiamo risolto con una soluzione omicida, ma che altro potevamo fare? Guarda però che bel cucciolotto di lupo!

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Lo vado a vedere? Annaud sostiene orgoglioso di non aver avuto alcun tipo di problema con la censura cinese, ma non si capisce cosa avrebbero dovuto contestargli in questa grande pellicola espressione di una visione ormai consolidata della Cina contemporanea, in cui è consentita una pacata espressione critica verso la fase irrimediabilmente conclusa, annegando il resto nella celebrazione (in questo film naturalistica) della nazione.
Ci shippo qualcuno? La censura ha contestato ad Annaud in fase di sceneggiatura la visione di un seno di una pastorella che allattava, che speranze abbiamo in questo senso?