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La straordinaria tenuta fisica di Tom Cruise e la sua capacità di archiviare con un sorriso carismatico certe parentesi personali passate non altrettanto performanti farebbero la gioia di ogni PR. Quando il tuo attore protagonista / super star hollywoodiana in grande spolvero si rifiuta di usare gli stunt per le scene d’azione in un franchise che ruota tutto attorno alla spettacolarità delle stesse – e magari si infortuna pure sul set – di fatto hai già portato a casa la promozione del film.
In questi elementi ricorrenti della filmografia e della promozione di Mission: Impossible finisce per venire adombrata quella che è l’unicità di Fallout, che supera ogni più rosea aspettativa sia dal punto di vista del franchise sia dal punto di vista del genere action.

L’aspetto più entusiasmante di M:I Fallout è che tutto fila così liscio, in uno scenario rodato sì ma capace di continue sorprese, che si esce dalla sala con il migliore degli umori: divertiti, intrattenuti, non instupiditi dalla componente spettacolare, mai fine a sé stessa. Tanto che quando ci si mette alla tastiera per recensirlo, ci si chiede stupiti dove stia il segreto. Difficile dirlo, perché questo sesto capitolo del franchise cruisiano si presenta al botteghino con l’eredità pesante del successo di critica e pubblico di Ghost Protocol.

Sicuramente la ritrovata allure del suo inossidabile protagonista permette al film di affidarsi completamente a lui senza prudenze o retropensieri di successioni o cambi al volante (che prima o poi, volente o nolente, la produzione dovrà affrontare seriamente). Per il momento però bisogna arrendersi ammirati alla capacità di Tom Cruise di prendersi un film imponente sulle spalle, dal gigantismo produttivo e dal minutaggio importante (oltre due ore), senza mai consentirgli di diventare troppo pesante o riflessivo.

Che sia a bordo di una motocicletta che percorre contromano gli Champs Elysées in un lungo inseguimento o che si getti da un aereo decine di volte al giorno per ottenere la ripresa perfetta di un paracadutaggio da brividi oltre le linee nemiche (e un caro pensiero all’operatore con cinepresa assicurata sulla testa che ha fatto lo stesso senza la medesima copertura mediatica), Cruise sa liquidare con una battuta le derive più drammatiche del film, mantenendolo saldamente nel territorio dell’intrattenimento estivo all’insegna dell’azione, ma a livelli qualitativi in cui è raro imbattersi.

Rimane la curiosità di capire dove sarebbe potuto andare il film se avesse scelto di prendersi sul serio esplicitamente, invece di rivendicare con orgoglio maschere di gomma, doppi e tripli giochi e altri dettagli un po’ sui generis che fanno parte della quintessenza stessa del franchise ma lo ancorano entro i limiti del blockbuster. Christopher McQuarrie – che dal suo cappello aveva già tirato fuori l’ultima sorpresa con Cruise protagonista, Edge of Tomorrow – sembra tentato sin dall’apertura di dare una svolta più profonda e introspettiva a una saga che galleggia eternamente sopra il suo lato più oscuro e realista.

Il bello è che nel tentativo di ancorare Ethan Hunt a dei non detti psicologici forti (gli incubi, la stanchezza, l’eterna fiducia in un governo sempre pronto ad accusarlo di tradimento salvo poi tradirlo ogni volta) McQuarrie trova anche il suo, di centro, la sua concretezza, come non riusciva a fare da anni, o forse da sempre.

Il resto fila tutto via liscio, con le facce giuste – il villain di Sean Harris autenticamente sinistro, Henry Cavill nel ruolo di solido gregario che non rubi troppo la scena a Cruise, Rebecca Ferguson e Vanessa Kirby capaci di far vibrare una scena che potrebbe scadere nel puro imbarazzo – al posto giusto, tra scene d’azione capaci di riscrivere un copione logoro (le soluzioni vertiginose della fuga degli elicotteri, il silenzio teso dell’inseguimento in macchina con a bordo il nemico e via dicendo) e un team a cui si affeziona senza rimorsi.

Insomma,  forse davvero Christopher McQuarrie ha superato i suoi illustri predecessori, da De Palma in giù. Quel che è certo è che quanto fatto è così buono che sarebbe ridicolo non accreditarlo già non come uno dei film dell’estate, ma come uno dei migliori visti nell’annata 2018.