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Dolor y Gloria è il vincitore di Cannes 2019. La Palma d’Oro è andata a un altro film, certo. È molto probabile che con queste ennesima vittoria sfumata, per ragioni anagrafiche e creative, Pedro Almodovar abbia detto addio per sempre alla possibilità di vincere sulla Croisette.
Tuttavia non c’è altro film passato a Cannes altrettanto ammirato e osannato. Il vincitore annunciato, il vincitore mancato, il vincitore morale di Cannes è Dolor y gloria, in perfetto equilibrio tra film testamento e film confessione.
A rendere amarissimo questo risultato è anche il dato matematico della vicenda. C’è innanzitutto il coefficiente sorpresa di un regista che in fase calante ha tirato fuori un film di una qualità che davvero nessuno si aspettava. Per arrivare a questo livello però Almodovar spende tanto, tantissimo, presentandosi con un film sostanzialmente irreplicabile.

Dolor y gloria è il film migliore di Almodovar, è il titolo che consiglierei a chi mi chiedesse un titolo per avvicinarsi al suo cinema? La risposta nel secondo caso è no: continuerei a rispondere Tutto su mia madre. Alla prima domanda invece la risposta potrebbe essere un sì, ma con la condizionale. Il discrimine principale di questo film è che risulta tanto più potente quanto più intimo è il rapporto che lo spettatore ha già sviluppato con il regista spagnolo.

Non è la prima volta che Almodovar racconta sé stesso attraverso la finzione del suo cinema, anzi, forse non ha mai fatto altro. In Dolor y gloria però il velo dipinto è così sottile, la finzione è così tenue – trattenuta a stento dall’alter ego del regista interpretato da Antonio Banderas – che l’esperienza risulta più potente e intima. Di fatto il film è un prontuario attraverso cui rileggere tutto ciò che è venuto prima con la chiave di lettura giusta, quella che inserita nella serratura la farà scattare e aprirà la porta. Impossibile per esempio non pensare a La mala educación nella scena in cui il piccolo protagonista si unisce al coro della scuola religiosa che frequenta, così come è impossibile non vedere ovunque gli echi del rapporto con la madre, qui finalmente rimesso in ordine ed esplicitato.

S’intitola Dolore e gloria il nuovo film di Almodovar, ma della seconda vediamo solo l’eco fatto di una casa museo e di una certa agiatezza economica. Di fatto a mancare nel film è la parte centrale della vita del regista, quella che conosciamo, quella gloriosa. La sua carriera cinematografica e la sua gloria sono assenti, così come è assente la dimensione sessuale, che è sempre stata cruciale nel suo cinema. Cosa rimane dunque? Rimangono due momenti lontani che si guardano allo specchio e si riscoprono simili, condividendo una sorta di purezza ascetica: quella del Almodovar bambino che vive al capezzale della madre e rivela già un talento artistico unito a un carattere tagliente e quella di un regista ormai anziano, incapace di accettare davvero la morte dell’amatissima mamma e il cui carattere pungente e malinconico è reso ancor più difficile dal dolore, assoluto protagonista del film.

Dal punto di vista carnale è un film di rottura, ma è anche la logica continuazione di un ossessione per il corpo che si è fatta via via più forte nei suoi ultimi lavori. Anche questa viene finalmente esplicitata, in un film che ha una dimensione molto spirituale e ascetica. Almodovar parla di una mitologia del corpo: una mitologia che si rifà a quella dei sacrifici greci agli dei, alla crudeltà del dolore e della privazione per ottenere la conoscenza. È attraverso un dolore insidioso, cronico e incessante che Almodovar ha imparato a conoscere fino all’ultimo centimetro del suo corpo, a conoscerlo davvero, in una dimensione ben più intima di quella sessuale.

Il cortocircuito alla base di Dolor y gloria è che il dolore si è fatto così forte da impedire ad Almodovar di rifugiarsi nel cinema. Il mestiere di regista è fisicamente impegnativo e, impossibilitato a girare dalle sue condizioni di salute, l’alter ego di Almodovar cade vittima del disagio fisico e mentale a cui prima era sempre riuscito a sfuggire. C’è un’angoscia strisciante che assale lo spettatore del film, colpito dall’assoluta sincerità con cui Almodovar racconta il suo intimo: quella di assistere a un commiato, quasi al De Profundis del cineasta. Sembra che Almodovar ci stia dicendo addio, con una serie d’immagini di una purezza commovente: un antico amore perduto che – a tanti anni di distanza – viene riconosciuto come l’unico rapporto importante, il primo incontro con un nudo maschile che diventa quasi mistico, un’apparizione religiosa. In questo senso è quasi commovente la necessità di Almodovar di nascondersi dietro una maschera, un alter ego, per garantirsi una minima distanza dalla verità per continuare a metterla a fuoco e riuscire a darle voce.

Una maschera fatta di un alter ego inestimabile: anche in questo senso si spende tantissimo, giocando la carta più preziosa e importante. Come altro definire l’interpretazione di Antonio Banderas, qui risorto come nessuno sembrava pronto a credere? Lui che forse più di ogni altro deve tutto ad Almodovar, qui mette a frutto 40 anni di amicizia e collaborazione per far rivivere il regista spagnolo in ogni gesto, in ogni movenza e frase. È davvero la grande interpretazione di cui tutti parlano, che aggiunge ulteriore amarezza al risultato finale perché questa sì che è stata riconosciuta dalla giuria, con tanto di Banderas quasi in lacrime, quasi a scusarsi perché la sua vittoria equivalsa alla sconfitta dell’amico.

Un caro amico ha detto di poter perdonare ad Almodovar una coincidenza fortuita, ma non due. Mi sento di dissentire: Almodovar si è spogliato di tutto in questo film, ma ha trattenuto per se solo la magia della finzione. Come ogni grande narratore, non può fare a meno di costruire una finzione per mostrare la verità. La storia di Dolor y Gloria fila in maniera sospettosamente liscia per risultare credibile fino in fondo nel suo svolgimento, eppure stando seduti in sala non si può che rimanere emozionati da questa confessione a cuore aperto, con Almodovar che guida il dito dello spettatore nelle sue piaghe, per fargli toccare con mano tutto il suo dolore. La speranza è che un sacrificio così grande non venga dimenticato di qui all’autunno dei premi. Da spettatori di lungo corso del cinema del regista, viene quasi da dire che c’è un prima e un dopo questo film, che forse non contiene nessuna grande rivelazione che non fosse intuibile da tempo, ma ha un grado di intimità tale da modificare la natura del rapporto tra regista e spettatore.

Lo vado a vedere? Il trailer poco ispirato è forse l’unico difetto di un film potente. Certo avere una scarsa o nulla conoscenza del cinema di Almodovar ne pregiudica in parte la potenza emotiva, ma rimane comunque un film bellissimo, un Cristo sofferente in croce di squisita fattura, di quelli che raccontano davvero il martirio del Calvario.