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Bad robot, Damien Chazelle, Dan Trachtenberg, fantascienza, Gardy consiglia, i film con gli alieni e le astronavi, J.J. Abrams, John Gallagher Jr., John Goodman, Mary Elizabeth Winstead
A otto anni di distanza posso dire di aver fatto pace con Cloverfield, un vero e proprio fenomeno che ai tempi della sua uscita aveva instillato in me un vago senso di terrore e rancore, perché il found footage particolarmente insistito e shakerato mi provoca un senso di mal di mare ben più realistico dei presupposti che portano tanti “nastri ritrovati” su schermo. Tipo: sono anni che vorrei rivedere Chronicle ma temo ancora l’ultima mortifera e traballante mezz’ora.
Ora che però risulta chiaro che la moda delle riprese fintamente amatoriali è così 2008 e non ha dato vita a un filone specifico (appassionati di horror, mi spiace per voi), ho la tranquillità necessaria ad ammettere che fu un esperimento interessante e una grande mossa produttiva della Bad Robot di J.J. Abrams e Bryan Burke. Quali erano le probabilità che un copione misconosciuto piegato alle esigenze di produrre un sequel/spin-off a tanto tempo di distanza generasse un buon prodotto? La nostra iperconsapevolezza sul come dove quando suggerirebbe pochissime, invece 10 Cloverfield Lane è un film fantastico, che vi consiglio caldamente ancor prima del cut.
L’opzione migliore sarebbe quella di andare al cinema assecondando il promo visto al Super Bowl, che più che mostrare il film ne alimentava il mistero, per cui stavolta mi limiterò a dirvi che tutto il film è un thriller giocato sulla continua tensione di una situazione in cui per la protagonista e lo spettatore è impossibile verificare di persona cosa stia succedendo, mentre invece bisogna fare affidamento su due personaggi, due sconosciuti sulle cui motivazioni e intenzioni non si possono che fare delle ipotesi.
La vera forza di un film che ha parecchi assi nella manica da giocare è quella di basarsi su una sceneggiatura solidissima, ritmata, precisa al millimetro, coerente e mai prevedibile. È chiaro come la Bad Robot abbia visto in quella prima bozza scritta da Josh Campbell e Matthew Stuecken non solo un film realizzabile con una spesa molto contenuta dato il cast e gli spazi ridotti all’osso, ma soprattutto un racconto eccezionale per qualità e di scrittura e per vicinanza a mostri sacri quali De Palma e Hichcock.
La mossa spregiudicata è stata quella di trasformare un thriller puro in in sequel spin-off di un film (e un genere) con cui non aveva nulla a che fare. Pare che di questo si sia occupato qualcuno con la competenza di Damien Chazelle (regista di Whiplash, dice niente?), generando una chiusa che pare essere davvero l’unico punto debole del film. Solo che no, non lo è. So di partire in un certo senso prevenuta ma mi pare che i detrattori del finale del film partano dallo spesso punto, anche se in campo opposto, argomentando più sulla base di un pregiudizio che su valutazioni oggettive. Le mie, spoilerfree, sono che si tratta di certo di una mossa commerciale, ma di quelle che nei film degli scorsi decenni esaltiamo come trovate di genio perché non siamo consapevoli della loro origine. Insomma, difficile non vedere come, oltre al twist che restituisce freschezza a una pellicola che sorprende proprio per dove va a parare, la scelta finale risolva il personaggio di Michelle e lo faccia evolvere in avanti al posto di perpetuare i suoi comportamenti (e indirettamente punirlo per la sua decisione iniziale). Poi se voi non sentite puzza di cult alla Ripley, beh, ci sentiamo tra vent’anni.
Il fatto che il progetto non sia rimasto nel suo territorio a basso budget ma abbia avuto la dignità di una produzione tanto curata è ancora merito della Bad Robot, che zitta zitta finisce per lanciare un regista dalla maturità già impressionante come Dan Trachtenberg (li avete letti i nomi che ho scomodato sopra no?) e mettere insieme un trio di protagonisti che dimostra tutto il suo potenziale e in cui è davvero difficile scegliere il migliore. Se Michelle è l’ennesima riprova che in un film di questo genere al contrario di quanto Hollywood pensi è bene farsi guidare da un lead femminile, stavolta c’è anche una controparte maschile che è altrettanto sfaccettata, carismatica e difficile da riassumere in poche righe. Non mi riferisco solo all’immenso John Goodman, ma anche al personaggio ma prevedibile e persino malinconico di John Gallagher Jr. Tre personaggi, tre storie memorabili, su cui si potrebbero scrivere saggi e post dedicati.
Unite un uso degli effetti speciali sapiente ma di livello, una colonna sonora che fa impallidire film ben più grandi dalle musiche anonime e immagini che ti si stampano nella mente (Michelle con un certo abito e prorompe con un unico, meritatissimo “Fuck!”) e avrete di fronte la prima uscita davvero forte del 2016.
Lo vado a vedere? Assolutamente sì, anche (e soprattutto) se non vi era piaciuto il primo Cloverfield. Qui siamo nel territorio dei thriller classici, con un twist contemporaneo e una struttura in cui funziona davvero tutto.
Ci shippo qualcuno? No ma come non apprezzare, per citare la tagline, quella genialata del fatto che monsters come in many forms?
Mitico, lo metto tra le cose da vedere.
A me il primo non era dispiaciuto, anche se dopo metà del film il format “tizio con videocamera che riprende tutto mentre cerca di non crepare cadendo dal tetto di un palazzo semidistrutto mentre scappa” diventa un po’ ridicolo.
All’epoca pensai che se avessero voluto esser veramente innovativi avrebbero dovuto unire lo stile videocamera, che nella prima parte funziona alla grande, a un approccio tipo YouReporter o videogiornale nella seconda. Della serie, sottolineiamo l’espandersi della storia a livello di catastrofe generale con l’ausilio di differenti punti di vista, tenendo un occhio privilegiato sui protagonisti ma non forzando tutto sulla singola ripresa amatoriale che sta un po’ troppo stretta.
Ma ok, erano deliri mentali.
L’idea del primo – l’invasione aliena (intra)vista attraverso gli occhi di personaggi marginali – era ottima, la telecamera non mi dava fastidio, il vero fastidio di Cloverfield erano personaggi inconsistenti del cui destino non mi fregava nulla. Per funzionare veramente, avrebbero dovuto farci appassionare a quelle persone, caratterizzarle meglio del solito film di sopravvissuti. Del resto quello che lo stesso J.J. Abrams&C. non avevano capito del successo di Lost è che il vero segreto erano i personaggi.
Di questo sequel sono molto curioso, comunque.