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Ann Leckie, fantascienza, Hugo Award, i libri con gli alieni e le astronavi, libreria fangirl, Locus Award, nebula 2015, Nebula Award, ritratto di relazioni umane prima che lavorative, space opera
Sono passati solo 3 anni e 3 romanzi dall’inizio della saga che ha lanciato Ann Leckie nel firmamento internazionale della fantascienza, eppure tante cose sono cambiate, così tante che si può dire a buon diritto che il ciclo di Ancillary è stato uno degli eventi più rilevanti dello scenario statunitense negli ultimi anni.
La trilogia della Leckie è stata una delle poche iniziata e conclusa in maniera solida e continuativa, capace non solo di convincere sempre critica e pubblico, ma anche di farlo spostando un po’ più in là il confine del genere e incarnando tutto un movimento di autori (ma soprattutto autrici) che costituiscono l’avanguardia di un nuovo modo di scrivere fantascienza in questo millennio. Un gruppo di scrittori e scrittrici che incarna un nucleo molto definito di idee e messaggi ma che prima della Leckie non aveva mai saputo mettersi così tanto sotto i riflettori, vincere tutto il vincibile e, pur rimanendo lontano per numeri dalle teste di serie, formare un gruppo di lettori così solido e affezionato da centrare per 3 (difficili) anni di fila la doppia nomination Hugo+Nebula, anche nell’annus terribilis dei Sad Puppies 2015.
Ancillary Mercy chiude così un ciclo che ha incoronato Ann Leckie come autrice al centro dell’attenzione e della discussione e lo fa portandosi a casa ancora una volta il Locus Award, nonostante la competizione in campo fantascientifico nel 2016 non sia di certo mancata (anche se sì, è rimasto vuoto lo scranno del romanzo dell’anno puramente sci-fi).
A lettura ultimata il miglior complimento che si possa fare è che da lettrice non vedo l’ora di poter tornare nell’universo radchaii creato dall’autrice e descritto a grandi linee nel suo sviluppo millenario, in attesa di addentrarci nel suo passato o chissà, nel suo futuro. Per la Leckie non sarà facile tirare fuori un nuovo romanzo, stretta com’è dalle aspettative e dal rischio di rimanere intrappolata nel suo stesso world building, per volontà dell’editore o per mancanza di alternative forti.
Certo che anche questa gestione della chiusa delle avventure di Breq (e l’annuncio che nei prossimi libri non ci saranno più l’ancillary, Seivarden e soci) chiarisce come l’autrice abbia le idee chiare e una netta volontà di perseguire solo i suoi scopi. Ancillary Mercy infatti, pur essendo più breve dei suoi predecessori, dà una definitiva risposta, personale e meditata, al grande tema della giustizia e dell’affermazione della propria singolarità umana e artificiale che si poneva in apertura di Justice, con una soluzione che permette di mettere temporaneamente la parola fine e di farlo con una forma che mi ha molto ricordato la Jo Walton di The Just City.
In 3 anni è cambiato molto anche il mio modo di leggere Ann Leckie. Rimane uno degli stili di scrittura che trovo più confortevole in assoluto, in cui è eccitante eppure allo stesso tempo davvero rilassante immergersi. Ormai la sensazione del fluire delle sue storie, tra giri di tè e confronti tra intelligenze artificiali che riflettono sui loro desideri e sulle loro volontà è davvero familiare, anche se in un certo senso lo è sempre stata: Ann Leckie per me incarna molto bene la fantascienza che vorrei leggere, in traduzione e in lingua originale, gli approcci e le idee che vorrei vedere esplorati più spesso da una space opera troppo spesso ridotta a rielaborazione celebrativa del glorioso passato.
Così tanti mesi di confronto con i suoi detrattori e di lettura di recensione più o meno apocalittiche hanno sortito una certa influenza, tanto che in Ancillary Mercy ho notato molto di più la continua puntualizzazione degli stati d’animo e delle reazioni di ogni singolo agente in scena. Continua a non infastidirmi e a sembrarmi una scelta narrativa connaturata alle caratteristiche dell’opera, come invece purtroppo non ha fatto il tentativo delle prime 50 pagine di introdurre alla storia i lettori a digiuno dei primi due capitoli. Mercy costituisce quasi un dittico con Sword, seguendo le vicende ormai già complesse degli avvenimenti sulla stazione di Athoek. Se persino spiegare i presupposti dell’intera saga richiede all’autrice (e a noi recensori) buona parte dello spazio destinato a Justice, perché affannarsi così?
Per il resto del romanzo Ancillary Mercy risulta invece particolarmente asciutto e, pur continuando a prediligere la riflessione all’azione, non indugia mai davvero un secondo più del necessario. Tuttavia io preferisco di gran lunga l’approccio brutale di Richard K. Morgan, che parte in quarta con buona pace dei lettori, passati e presenti.
Sempre rimanendo in territorio assolutamente spoiler free (anche per chi è a completo digiuno della saga), mi soffermo sui due elementi che mi hanno sorpreso di più, uno in positivo e uno in negativo. Non mi aspettavo che una certa durezza (o per meglio dire, equanimità) di giudizio che aveva contraddistinto l’approccio a certi personaggi “vecchia maniera” come Seivarden finisse per toccare anche Breq, di cui Mercy analizza impietosamente debolezze e contraddizioni.
Avrei molto desiderato che la stessa acutezza venisse riservata all’incarnazione di Anaander Mianaai che compare in questo romanzo, l’elemento che secondo me stona di più con le premesse dei precedenti libri e che rende a mio parere l’intreccio narrativo di Mercy lievemente inferiore. Ridurre tutto a un “questa parte di Anaander è così compulsiva da sfociare nell’idiozia” non mi è parso il degno finale di un villain di magnifiche premesse forse mai esplorate pienamente. Anche i Presger di fondo rimangono un’incognita, ma grazie all’inserimento particorlamente azzeccato di un personaggio riuscitissimo come il traduttore Zeiat evitano di rimanere il deus ex machina o la domanda senza risposta della trilogia.
Lo leggo? Assolutamente sì! Pur se con qualche oggettivo difetto, è una grande conclusione alla saga, che chiude un arco narrativo ma pone domande così interessanti sul rapporto tra alieni, umani e AI che il dilemma già mi lacera: potessi scegliere io vorrei un romanzo ambientato prima dell’assembramento della Justice of Toren o dopo i negoziati sul nuovo trattato con i Presger? Ancillary Mercy però pone la parola fine nel più soddisfacente dei modi possibili a quella che era l’urgenza espressa in modo diverso da ciascuno dei personaggi: come stabilire la propria identità singolare, di persona e di AI, la propria volontà di fronte alla coercizione esterna e al costrutto sociale in cui si vive e si collabora? Pur se con qualche pezza, come per il caso della vendetta di Breq, la missione è sostanzialmente compiuta.
Ci shippo qualcuno? Io me la posso vedere la lotta interiore di Ann Leckie, divisa tra la svolta logica e fangirlistica che la storia avrebbe dovuto prendere e la sua sadica volontà di non dare mai una gioia a noi estimatori di quell’adorabile idiota di Seivarden Vendaai. Fortunatamente, dopo averci discusso abbastanza spesso su Twitter parlando di frigoriferi e tè, mi sono fatta l’idea che non sarebbe mai una persona con cui andrei d’accordo perché troppo volitiva e cocciuta, ma talmente inflessibile con i suoi principi da non poterci negare delle grandi soddisfazioni in questo terzo volume.
L’edizione italiana di Ancillary Mercy non è ancora stata pubblicata da Fanucci. Data la cadenza annuale ed estiva con cui i precedenti volumi sono usciti e le notizie confermate di scarse vendite, il dubbio purtroppo è stato espresso da molti: vedremo e vedrete mai il terzo tomo in italiano? Da parte mia sto chiedendo informazione e conferme a più riprese: spero di potervi dare al più presto buone notizie.
Disclaimer: Orbit Books mi ha fornito una copia del libro a titolo gratuito in cambio di una recensione onesta, quella che avete appena letto.
MariaSte ha detto:
Come ti dissi io ai tempi della mia lettura (quasi un anno fa) io letteralmente lanciato il libro in due punti precisi (Chiaramente a proposito di Ci shippo qualcuno). Però ho lasciato il segnalibro alla pagina in cui la Leckie ci fa vedere il contenuto del diario di bordo di Breq. Molto pregnante (e condivisibile XD).
Iro ha detto:
Non posso esprimermi sul terzo libro non avendolo ancora letto. Il primo mi aveva annoiato abbastanza..il secondo pure ma lo sto leggendo per non lasciare cose a metà. Personalmente trovo lo stile è i temi trattati abbastanza banali o non approfonditi a dovere. Totalmente assente almeno nella versione italiana da me letta un guizzo di poesia o scrittura alta. Solitamente condivido quasi sempre i tuoi consigli e giudizi, questa volta per nulla.
Elisa G. ha detto:
Se il fandom della Leckie è solido e ampio, non mancano di certo tante voci critiche: ci sta.
Certo che tu lo leggi in una traduzione particolarmente infelice (per il primo volume ci sta un scellerata), quindi non mi stupisce che manchi la poesia, quando in tanti hanno mollato di fronte alla mancanza di senso logico.
In entrambi i post precedenti trovi ampi stralci e confronti tra le due edizioni.
Elisa G. ha detto:
Per quanto riguarda la Leckie però non parlerei di “scrittura alta” (literary fiction ed equivalenti) come stile, ma ad essere onesta trovo scriva in maniera molto più accattivante di uno stock di autori tipo di Urania. De gustibus.
Iro ha detto:
Ci mancherebbe non a tutti piacciono le stesse cose, ma in generale, linguaggio a parte data la mia fruizione in italiano, trovo il mondo creato troppo abbozzato. Sostanzialmente non credo che questa saga possa essere strettamente considerata sci-fi, la vedrei maggiormente inquadrata nel genere fantasy, ma di tale genere non prende i toni epici. È come se a star wars togliessero le spade laser! Imho 🙂
Elisa G. ha detto:
Come Star Wars rientra appieno nella Space Opera, con un focus sull’autodeterminazione e coscienza delle AI / rapporto con razze non umanoidi (soprattutto in Mercy) che sono tipicamente SF. Anche perché sennò nella SF ci entrerebbe solo la hard SFF e i futuri immediatamente presenti.
L’impero Radchai poi è delineato nella sua storia e soprattutto nella sua cultura/religiosità in maniera abbastanza dettagliata, peccato che numerosi passaggi siano completamente travisati: voglio dire, l’edizione italiana (e francese) si apre postulando una violenza sessuale INESISTENTE in originale. Oltre alla forma cambia proprio il contenuto, purtroppo. Mi dicono che il secondo volume sia meno tragico però.
FerroN ha detto:
Sono passati tanti anni da quando – ero poco più di un ragazzino – la Fantascienza è stato il genere che mi ha introdotto al magico mondo dei libri. I miei autori preferiti – lo sono stati per molto tempo – figurano ancora tra i “grandi classici”: non sto nemmeno a nominarli, li conoscono tutti.
Ogni tanto provo a rileggerne qualcuno: in molti casi sono scritti male, da celebrati scrittori improvvisati e senza stile, tradotti ancora peggio (e a volte pure “tagliati”); young adult ante litteram (in effetti, a tale pubblico erano in gran parte destinati), a volte con qualche idea originale ma niente di più. E mi chiedo: come ho fatto a innamorarmi di ‘sta roba?
Averne, invece, di autori come la Leckie (nonostante la traduzione italiana)… Invece continuano a riscuotere successo (e vengono puntualmente pubblicati) libri irrimediabilmente datati e illeggibili.
Per quanto mi riguarda, a volte mi pento di aver criticato e cercato difetti nelle opere di scrittori come Stross, Mieville, la stessa Leckie, A. Reynolds, McDonald eccetera (tutta gente che, nel peggiore dei casi, sa almeno come si scrive un romanzo); e l’ultima parte della trilogia di “Ancillary” (anche in italiano Fanucci) e “Storie della tua vita” di Ted Chiang (Frassinelli, a novembre) sono le sole uscite che aspetto con curiosità.
Senzapre7ese ha detto:
Non capisco la critica alla puntualizzazione degli stati d’animo: e di Dune che dovremmo dire?
Non ho molte speranze di leggere Mercy, quindi mi limito a ripetere che a una scrittrice capace di mostrare come un AI percepisca contemporaneamente ciò che accade in diversi luoghi e renderlo attraverso le scelte stilistiche, be’, perdono anche i ridicoli the delle cinque.
Elisa G. ha detto:
Eh, è che nel terzo libro sta a rispiegarti tutti i modi con cui legge le emozioni dei vari attendenti e a un certo punto io ero un po’ “Ann, li ho letti i primi due, move on!”.
Dannazione, a me rimangono solo i ridicoli è delle cinque, che faccio già fatica a spiegare le capacità narrativa di Ann Leckie.