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Il tempo ha dato ragione a Guillermo Del Toro e alle sue defezioni tanto celebri quanto ricorrenti. Lasciare un nascente franchise originale così spettacolarmente avviato sembrava una mossa avventata, e invece a un quinquennio di distanza eccolo che cerca spazio sulle mensole di case per un Leone d’Oro e due Oscar, vinti in un’annata ricca di film notevoli con una pellicola tutt’altro che incontestabile.
A tentare di raccogliere la sua identità e consolidare il franchise con l’invitabile e non richiesto sequel ecco che Hollywood chiama uno sceneggiatore/produttore di successo (vedi Spartacus su Startz) e onesto regista mestierante, Steven S. DeKnight.
Bastano le poche scene iniziali di Pacific Rim: La Rivolta per constatare che DeKnight abbia ben chiaro quanto sia necessario distanziarsi dal modello originario per far funzionare il film.

L’unico vero vantaggio di cui gode Steven S. DeKnight è che davvero nessuno si aspetta da lui un film all’altezza del predecessore, anche considerando che Del Toro è rimasto nella partita come produttore. Non mi riferisco al pubblico, per cui la condizione primaria per un sequel sarebbe stata la presenza di Del Toro, ma ad Hollywood stessa, che con l’addio del regista messicano alla regia nemmeno ci prova a mantenere il medesimo livello di aspettative.
Così viene chiamato DeKnight e gli viene fornito come protagonista John Boyega, la versione ridimensionata di una presenza carismatica come quella di Idris Elba, che si tenta di mascherare con un paio di inaspettati baffetti. Stesso destino subisce la produzione e il livello tecnico di un film, per la cui colonna sonora verranno sostalzialmente remixati gli iconici commenti musicali del primo film.

Considerando queste premesse, Pacific Rim 2 sorprende per come porti a casa un risultato commerciale sì, tradizionale tantissimo, ma che diverte il giusto e non fa nemmeno sentire instupiditi all’uscita della sala. Se c’è una cosa che il botteghino negli ultimi anni ci ha insegnato, è che realizzare un blockbusterone misurato, divertente e che non si prenda troppo sul serio può essere difficile tanto quanto girare un ottimo film d’autore.

È interessante analizzare il come DeKnight persegua questo risultato. Se le ambientazioni – per esigenze narrative e speranza di accalappiare il pubblico cinese – rimangono le metropoli del Pacifico, l’atmosfera e la struttura del film rigettano da subito e con decisione l’impostazione gloriosamente smargiassa e cazzara che Del Toro aveva pescato da tante visioni del suo passato e dalla tradizione tutta giapponese dei b-movie e degli anime a tema Kaiju e robottoni.

Qui i robottoni ci sono, ma non sono assolutamente il focus del film o il centro dell’azione, per una pellicola che punta ad esserci sin da subito familiare con un schema proprio del cinema statunitense. Gli Jaeger di Pacific Rim: La Rivolta sono un colossale mezzo con cui narrare l’ennesima parabola di redenzione dell’eroe che rigetta il suo destino e impara nell’emergenza e nel lutto a ricoprire il ruolo che tutti da lui si aspettano.
Certo Gypsy Danger non ha che una frazione dell’imponenza originaria, ma bisogna anche ammettere che DeKnight è sempre in pieno controllo di un film dalle proporzioni giocoforza da blockbuster, laddove anche Del Toro stesso veniva un po’ sopraffatto dall’irruenza creativa della sua stessa creatura.

I personaggi di Del Toro, esautorati del loro carisma da un sequel che si è preso sin troppo tempo per arrivare e che ha perso il loro creatore, cedono via via il passo a una generazione più giovane e omogenea per ambizione e caratterizzazione, dove non spicca la performance o l’arco narrativo di nessuno ma nemmeno la palese o molesta inutilità di un pilota a discapito dell’altro.
Dato che anche i Kaiju sono stati messi in stand by dalla prima chiusa, il film ricade su un “cattivo” del presente, sublimando una paura dei giorni nostri in maniera estremamente didascalica sì, ma comunque efficace e vagamente allusiva allo strapotere cinese a livello economico e tecnologico. A uscirne meglio di tutti è la bella  Jing Tian, forse la più carismatica di una pattuglia di attori insolitamente variegata per volti e corporature, ma omogenea nell’incapacità di dimostrare carisma e talento vero.

Questo non significa che Pacific Rim 2 sia noioso o mal riuscito, anzi: sfruttando la sua ampia conoscenza del fandom che il primo capitolo di culto ha generato, DeKnight piazza almeno un paio di colpi di scena degni di questo nome e controlla accuratamente il ritmo del film, che non conosce mai veri e propri momenti di stanchezza. Il confronto con quello che ben presto si rivela essere il suo punto di riferimento – l’americanissima saga di Transformers – lo vedo uscire sostanzialmente vincitore.

L’operazione action senza pretese ma senza eccessivo sbrodolamento narrativo tutto sommato non è nemmeno così malvagia, consapevole di dover ridimensionare le aspettative del pubblico (il personaggio di Boyega chiarisce sin da subito che non ha nel cappello un passaggio epico come la cancellazione dell’apocalisse) ma sempre attenta a tirar fuori il miglior risultato possibile.

Contro ogni aspettativa o previsione, se Pacific Rim si conquisterà un terzo capitolo, sarà perché anche i realizzatori del sequel hanno lavorato alacremente, consapevoli dei propri limiti ma decisi a non farsi demoralizzare dagli stessi.
Certo rimane il rimpianto di aver comunque perso l’ennesima occasione di sperimentare un po’ con contenuti originali e atmosfere orientali che non fossero eredità stereotipata della metropoli di Blade Runner, oltre al concreto dubbio che l’operazione arrivi ben oltre il lecito per contare sull’interesse o il sostegno del pubblico.