Tag

, , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , ,

a royal affair locandinaCome si fa a negare che la nostra visione della cinematografia sia fortemente anglocentrica, per non dire americanocentrica? Vivendo in Europa, grazie a iniziative di tutela dell’Unione Europea e a sale convenzionate, qualcosa si riesce sempre a recuperare (nelle grandi città), ma pensandoci su la curiosità pocahontesca è sempre quella: oltre il fiume cosa c’è? In questo senso, festival e premiazioni internazionali sono alleati davvero preziosi del cinefilo. Spesso nell’anno solare i titoli ricorrenti a più latitudini segnalano il grado di rilevanza di qualche pellicola non anglosassone e/o extraeuropea che si avvia a diventare un cult.

In questo senso, la cinquina del Miglior Film Straniero agli Oscar è una manna. Primo, perché ogni anno tutti gli stati nominano il film nostrano che ritengono migliore (o per i più sgamati, quello più spendibile a livello internazionale), perciò chi fosse interessato a particolari cinematografie, ogni anno almeno un titolo considerato meritevole in patria si trova sempre. Secondo perché nella cinquina finale in genere l’equilibrio tra film artisticamente meritevoli e film godibili è quasi sempre rispettato. In genere il film PESO si spende nei festival, mentre in America si mandano pellicole che non siano completamente impenetrabili al gusto e alla comprensione del pubblico a stelle e strisce.

Nel 2013 Amour di Michael Haneke ha spadroneggiato anche nelle categorie principali, rubando del tutto la scena agli altri candidati che, in partenza, non avevano alcuna chance. Ricordate: non vince quasi mai il più bello degli stranieri, ma quello meglio distribuito e sponsorizzato, magari con qualche premio europeo pesante già in tasca. Non per niente Benigni ai tempi si fece il giro di tutto i late show americani e infatti “Robbbberto, vieni!” non è figlio solo di un film intrinsecamente italiano e spendibile universalmente, ma anche di uno sforzo di pubblicizzazione da parte dell’Italia che da allora non si è più visto.

Quali erano gli altri candidati a Miglior Film Straniero 2013? C’è qualcosa d’interessante? Approderanno mai in Italia? Lo speciale ferragostano è qui per voi!

Amour di Michael Haneke
Se ne è già parlato QUI. L’esempio perfetto di nome già noto alla stampa specializzata negli Stati Uniti che, facendosi forte di una marea di riconoscimenti europei e di una tematica altamente drammatica e perciò molto da Oscar, si è imposto con un film ineccepibile, ma indiscutibilmente più peso della media di quelli che prevalgono in questa categoria.

a royal affair locandinaA Royal Affair di Nikolaj Arcel
Un period drama in costume piuttosto canonico, che sfrutta la sua natura locale per proporre una vicenda reale sconosciuta ai più al di fuori della Danimarca. Non fatevi ingannare, perché lo sforzo produttivo per adattare un romanzo storico best seller in patria è notevolissimo, tanto che il film è stato più volte opzionato e abbandonato proprio per la mancanza di un budget che permettesse di fare le cose in grande. Nikolaj Arcel realizza un film ben girato, canonico sì, ma qua e là per niente scontato, in cui traspare chiaramente una forma mentis della liberalissima Europa del Nord. In quale film italiano un medico ateo rivoluzionario che seduce la regina coniugata a un re con seri problemi mentali e di fatto prende le redini del potere manovrando il suddetto in uno stranissimo rapporto a tre per imporre riforme illuministe e in favore del popolo sarebbe il polo positivo del film assieme alla bellissima, volitiva e complessa regina amante?
A Royal Affair è molto più di drammatico period drama a sfondo amoroso, tanto che la tresca si compie nella parte finale; è un film sulla resistenza della classe ecclesiastica e nobiliare al progresso compiuto da chi, pur intrappolato in costrinzioni di corte, tenta di vivere una vita secondo il suo credo filosofico, fino alle estreme conseguenze. Il film ritrae il passo necessario per permettere alla generazione reale successiva di superare il medioevo in cui era incastrata la Danimarca, rendendola un esempio di quello a cui pensiamo quando parliamo di Europa del Nord. Passo dolorosissimo e pieno di rinunce, quindi preparate i fazzoletti. Ovviamente a ritrarre il carismatico e seducente dottor Struensee (che suona male tanto quanto state immaginando) è stata interpellata la star internazionale per eccellenza, Mads Mikkelsen, semplicemente perfetta per il ruolo. Occhio però, perché è forse il peggiore (per modo di dire) dello straordinario trio dei protagonisti, con una Alicia Vikander (Kitty di Anna Karenina, che Joe Wright ha sempre l’occhio lungo) superba nell’incarnare appieno gli aspetti positivi e negativi della regina Caroline Mathilde, che almeno ha pagato per aver tentato di migliorare la condizione del popolo, beccati questa puzzona Maria Antonietta (e comunque Kristen Dunst se la mangia viva nei 10 minuti iniziali)! Che anche Caroline non sapeva nulla della vita e nel giro di un decennio lottava per il bene del popolo, altro che croissant. Il Christian VII di Mikkel Boe Følsgaard però svetta incontrastato, un’eccezionale interpretazione di un re malato, fragile mentalmente e sostanzialmente manipolato da tutte le fazioni, eppure capace di un affetto purissimo e morboso nei confronti del suo primo traditore, Struensee e della moglie, ridotta al ruolo di madre surrogato. Grandissimo. Anche il regista non è esattamente l’ultimo degli arrivati, essendo colui che ha adattato sullo schermo i primi due film svedesi della trilogia di Larsson. Evidentemente in Danimarca è l’uomo da chiamare su progetti delicati e ad alto budget.

a royal affair mads mikkelsen alicia vikander

Lo recupero? Pur ingranando lentamente, è sicuramente un period drama da recuperare, specialmente se siete appassionati del genere (in tal caso è praticamente obbligatorio), vi piacciono i film storici o Mads Mikkelsen.
Uscirà in Italia? Sì! Il 29 agosto 2013. Non fatevelo sfuggire se è il vostro genere o siete degli inguaribili romantici, ma non scordate il fazzoletto!

kon tiki locandinaKon-Tiki di Joachim Rønning e Espen Sandberg
Qui invece ci addentriamo in pieno territorio “Chi? Cosa?”, anche se i più attenti di voi avranno notato che il duo di registi è quello a cui è stata affidata la spinosa pratica de “Pirati dei Caraibi 5”. Non voglio nemmeno pensare che sia per questa comunanza acquatica, ma non mi stupirei nemmeno troppo, dato che il loro unico precedente di rilievo è “Bandidas”, ehm.
Kon-Tiki era il candidato norvegese in gara, che presentava la versione romanzata dell’avventura acquatica di Thor Heyerdahl. Come nel caso danese, un “tratto da una storia vera” tutto da scoprire, mentre in patria il protagonista è una specie di eroe nazionale. Cast quasi completamente maschile, novergissimamente biondo, per la storia di uno scrittore ed esploratore che nel 1947 decise di provare la provenienza sudamericana delle popolazioni polinesiane affrontando l’attraversata dell’oceano Pacifico su una zattera in tutto e per tutto identica a quelle primitive. Riuscirà il nostro eroe (interpretato da Pål Sverre Hagen) a giungere a destinazione e a mantenere unito il nucleo famigliare, con la moglie a casa non proprio dell’idea di stare a tessere la tela e badare ai due figlioletti? Il film gode di un budget considerevole ed è stato un successo in Norvegia, complice l’ampio respiro della pellicola, che si presenta come una vera e propria avventura spendibile commercialmente. Alle nostre latitudini attori come Anders Baasmo Christiansen e Tobias Santelmann non suggeriscono nulla, ma il potentissimo clan Skarsgård è riuscito a piazzarci uno dei suoi: Gustaf Skarsgård, ovvero il Floki di “Vikings”.

kon tiki zattera

Lo recupero? “Kon-Tiki” impressiona per il respiro avventuroso della sua storia (che da noi gode d’imprevista suspance non conoscendone l’epilogo) e per il notevole sforzo realizzativo. Si è sfornato un ottimo film commerciale, capace di appassionare lo spettatore. Gli manca quel guizzo autoriale in più, ma presentarlo agli Oscar è come battere un colpo all’Academy e dire “va se ci mettiamo cosa riusciamo a fare”, dato lo sforzo non indifferente di girare la maggior parte delle riprese in acque aperte (o fingendo di). Non imperdibile, ma sicuramente una bella visione, specie se avete voglia di respirare aria di libertà e, ancora una volta, di farvi stupire dalla libertà personale e intellettuale del Nord Europa.
Uscirà in Italia? Ahah, no. Per ora.

no i giorni dell'arcobaleno locandinaNo – i giorni dell’arcobaleno di Pablo Larraín
In Cile la scelta è stata quasi scontata, dato che questo “No” aveva passato un po’ tutti i festival destando impressioni più che positive, da Locarno a Cannes. In effetti il film di Pablo Larraín sfrutta il tema sempre influente della lotta contro le dittature e quello più sottile ma estremamente attuale dell’uso delle tecniche di marketing a scopo politico, gettando le dovute ombre su un evento in sé iperpositivo come la caduta di un regime. Forse la storia del referendum cileno e della vincita del no che segnò la caduta della dittatura di Pinochet è il primo fulgido esempio di quanto sul medium televisivo il linguaggio di persuasione pubblicitaria possa persuadere anche in campo ideologico e politico, banalizzandolo. Il film si fa forte di un Gael García Bernal nella parte del pubblicitario protagonista, diviso tra l’esigenza di tenere un basso profilo per il bene del figlio e la volontà di creare una campagna pubblicitaria rivoluzionaria per il “no”, improntata su valori positivi più che sulla denuncia delle persecuzioni del regime. A tratti, potrebbe essere tranquillamente un film italiano, sia per il messaggio politico forte e la sfumatura riflessiva sull’uso macchiavelliano della televisione, ma a tratti si impone potente per le scelte di regia e montaggio, oltre a punte d’amara ironia sparse qua e là.
Personalmente ho francamente detestato la decisione di Larraín di girare tutto in 3:4 e con una fotografia volutamente sgranata e scadente, per consentire il passaggio naturale tra immagini di repertorio e girato, senza scatti, mantenendo intatta l’atmosfera di quegli anni. La trovata in sé è geniale, ma il mio gusto personale predilige l’approccio alla “Argo”. Insomma, l’ho trovato un inutile effetto nostalgia. Può piacere o non piacere, però sono convinta che nulla vieti di rendere un film storico “autentico” senza incaponirsi su metodi anacronistici “perché allora si usava così ed è una scelta necessaria per restituire lo spirito del tempo senza stacchi visivi”, specie se rendono la fruizione dell’immagine così difficoltosa. Nella visione questo fattore pesa molto, così come la regia curata ma un po’ tradizionalista. Lo ammetto, io in Larrain tutto questo talento decantanto non lo percepisco. Anzi, a tratti mi ha ricordato un certo cinema italiano un po’ demodè.

no i giorni dell'arcobaleno gael garcia bernal

come un Kim Rossi Stuart qualsiasi.

Lo recupero? Ancora una volta la storia narrata è decisamente interessante, specie per le riflessioni post-visione che induce sulla potenza del mezzo televisivo, non sempre asservito per piegare dittature, come l’amaro finale ci rammenta. Bernal è sempre figo eh, ma l’approccio ultraretrò lo rende più un film da cineforum del centro sociale che gradevole intrattenimento serale, ecco.
Uscirà in Italia? Dato il coefficiente “nostalgia sinistra” che emana al solo accennarne, il film è stato ovviamente distribuito in maggio, con tanto di articoli inneggianti al “dovere politico di riempire le sale” (davvero).

war witch locandinaWar Witch di Kim Nguyen
Se pensavate che “Amour” fosse indiscutibilmente il film più PESO della cinquina, avete fatto i conti senza il candidato canadese, uno schiacciasassi dei sentimenti positivi e della veglia attiva dello spettatore. Candidatura piuttosto sopra le righe, d’altronde il Canada nell’ultimo decennio ha piazzato sette nomination su dieci (e due non avevano speranza per la tematica gay non proprio amatissima negli anni passati), quindi sembrano sapere cosa fare.
War Witch è la versione meglio scritta, meglio girata, meglio recitata e meno leccaculo di “Beast of Southern Wild” ma senza l’endorsement presidenziale. Indubbiamente il meno distribuito e noto della cinquina, dato anche i temi non proprio popolari: durante una guerra civile nell’Africa subsahariana, Komona (la cui interprete Rachel Mwanza ha ottenuto un lasciapassare speciale per partecipare alla cerimonia) è una giovane bimba soldato, costretta fin da subito a scelte drammatiche per sopravvivere: uccidere i propri genitori con un fucile o assistere alla loro dolorosissima morte via machete. Haneke, beccati questo. Se ho scomodato l’altra pellicola è perché la parte centrale è impermeata dello stesso realismo magico, l’unica valvola di sfodo di Komona, assistita da spiriti e da uno stregone nel sopravvivere alle imboscate nemiche, con tanto di spirito protettore, credo. A un certo punto, giusto per non farci mancare niente, fa la sua comparsa anche un africano albino (il massimo di quoziente di sfiga ottenibile in un continente in cui se sei bianco sei figlio della stregoneria o poco meno), ma non ho ben capito perché. Recuperare questo film non è stata una passeggiata e, confesso, l’ho visto sento un supporto linguistico appropriato. Il che non mi ha inficiato più di tanto, date le lungheeeee riprese silenzioseeeeee sulla selvaggia savana/foresta/altro. Roba da scomodare di nuovo l’antologica tag “gente che guarda i film coi sottotitoli in ceco”, ricordate?

war witch albino

Lo recupero? Posto che è di molte spanne superiore a “Beasts of Sourthern Wild” (non che ci voglia molto, basta avere una regia, tipo), diciamo che per quanto ben realizzato, che PESO. Insomma, se proprio siete patiti della questione africana e al pensiero dei bimbi soldato state indossando la vostra maglietta di Amnesty/Emergency (l’Unicef è troppo mainstream, è in mano alle corporazioniiii!), allora ok, sennò fate i malvagi capitalisti menefreghisti come me e soprassedete.
Uscirà in Italia? No, ma stavolta non è il caso di farne una colpa a nessuno. Praticamente indistribuibile.