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Nonostante come critica vorrei somigliare al solido, rassicurante e paterno Ettore, purtroppo molti di voi si sono accorti del mio tallone d’Achille: il cinema italiano. Ebbene sì, soffro di una spesso non giustificabile insofferenza verso i prodotti italiani, un’alterigia che mi porta costantemente a perdermi le nostre migliori uscite dell’anno. Finisce sempre che recupero in tempo utile per parlarvene solo le maggiori uscite festivaliere e qualche tragico lungometraggio a cui ho dato una chance, pentendomene amaramente.rossoistanbul_4
A mia discolpa posso dirvi che sono uscita abbastanza provata dal pomeriggio di proiezioni stampa che mi hanno sottoposto in rapida successione alla visione delle due uscite tricolori della settimana: Omicidio all’Italiana di Maccio Capatonda e Rosso Istanbul e Ferzan Ozpetek.

 

rossoistanbul_locandinaA dieci anni da Il Bagno Turco, un Ozpetek più maturo, riflessivo e romanziere torna nella sua Istanbul che non c’è più, raccontando le inquietudini politiche e le aspirazioni cosmopolite di una città il cui carattere tradizionale sta scomparendo insieme alle famiglie che da generazioni abitano gli yali. È proprio in una di queste case tradizionali affacciate sul mare che è ambientato Rosso Istanbul, adattamento fedifrago del romanzo del 2013 scritto dallo stesso regista.
Accompagnato dal rumore perpetuo delle gru che scavano le fondamenta di grandi, lussuosi edifici che stanno cambiando il volto della città, Orhan (Halit Ergenç) fa ritorno in città dopo una lunghissima assenza per aiutare il regista Deniz (Nejat Isler) ad editare la sua autobiografia. Affabile e manipolatore, lo scrittore regista costringe lo sconosciuto editor a soggiornare nello yali che si sta preparando a lasciare in favore di una sistemazione più modesta e a conoscere i protagonisti del libro su cui sta lavorando, che si riveleranno ben diversi dalla finzione letteraria.
Rosso Istanbul è un film che si ricorda con più piacere a posteriori rispetto alla visione in sala, permeata dalla noia di un film che è più un’indagine interiore del regista che un dialogo con gli spettatori. Attraverso i suoi due alterego – Orhan/ Ferzan di oggi, romanziere riflessivo e silenzioso  e Deniz /Ferzan di ieri, regista rampante e di successo – Ozpetek vorrebbe quasi guidarci all’intero di un thriller di hitchcockiana memoria, permeato da due misteri: uno riguarda, non a caso, l’improvvisa scomparsa di Deniz, l’altro la reticenza con cui Orhan glissa sul motivo per cui, anni prima, abbandonò la Turchia e la carriera di scrittore.
Non aiutato dal suo montaggio zoppo e dal suo ritmo sincopato, frutto della mancanza di un vero e proprio filo conduttore che sostenga le singole scene, Rosso Istanbul lascia un’impressione simile a quella di quei post che si leggono spesso nelle bacheche altrui sui social network: siamo affascinati dal messaggio implicito ma evidentemente rivolto a una persona precisa, ma non avendo i mezzi per interpretarlo, ne rimaniamo completamente estranei. Ozpetek insomma si guarda dentro attraverso i suoi personaggi, non curandosi molto di chi sta a guardare l’operazione.
Se il film non naufraga completamente è merito del notevole cast turco messo insieme dal regista, la cui freschezza è tale solo per il pubblico italiano. Tra i tanti attori famosissimi in patria ma sconosciuti da noi la mia gerontofilia impone di citare Halit Ergenç; quando il film si perde e annoia, con i suoi magnetici occhi azzurri sono capaci di veicolare una carica inespressa di tristezza così abissale da tenerti comunque inchiodato alla sedia. Se soffrite della sindrome della crocerossina, finirete per volerlo abbracciare.

Se vi è mai capitato di gettare l’occhio sulle tag settimanalmente utilizzate su questo blog e se avete come la sottoscritta una conoscenza enciclopedica dei celebri trailer speciale cinema di Mai Dire…, sapete che nel muovere una critica al secondo lungometraggio cinematografico di Maccio Capatonda non sono certo spinta da snobbismo o pregiudizio: io amo le comicità sgangherata e sgrammaticata di Marcello Macchia, che innanzitutto lo distingue da quella massa informe di commedia italiana tutta assalti a persone/situazioni indifendibili e affetta da una mancanza di cattiveria tale da risultare talvolta reazionaria.
Non è certo il caso di Maccio Capatonda, che con il suo esordio cinematografico Italiano Medio aveva saputo portare al cinema quel ribaltamento che ce lo aveva fatto amare prima in TV con Mai dire… e Mario, quel momento in cui con grande inquietudine di rendi conto che non stai più ridendo dei difetti dell’italico popolo da un piedistallo, perché ci sei dentro fino al collo anche tu in quel mare di qualunquismo e morbosità.
Stavolta si rimesta davvero nel macabro con Omicidio all’Italiana, il tragicomico tentativo del sindaco di un minuscolo e morente borgo chiamato Acitrullo di attirare l’attenzione nazionale tramutando una morte accidentale in un omicidio cruento e titillante per campioni di ascolto come Chi l’Acciso, trasmissione cult diretta dalla sexy e potentissima Daniela Spruzzone (Sabrina Ferilli). 

Il problema è che stavolta di quei lampi di genio alla Maccio non ce ne sono poi tantissimi e anzi, manca proprio  quel ribaltamento che ci porta a vedere con inquietudine noi stessi nei suoi personaggi. Si ride e deride una categoria indifendibile, quella del giornalismo avvoltoio, si spara sulla croce rossa senza mai uscire dal territorio sicuro di chi attacca chi non ha difese, senza mai far far diventare anche il pubblico in sala il soggetto dell’analisi. Questo senza porre rimedio alle solite debolezze delle produzioni di Macchia, in primis quella corte di miracoli di cui si circonda e che non gli permette di fare il salto di qualità, di farsi prendere davvero sul serio al di fuori del suo circolo di incrollabili estimatori. Un’impressione confermata dalle aggiunte di “pregio” al cast: Nino Frassica e Sabrina Ferilli