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Vuole la tradizione che ai primi caldi i cinema italiani si svuotino non solo di spettatori ma anche di novità vere e proprie. Noto è il vizietto dei distributori italiani di tenersi da parte le chicche per l’affollatissimo autunno, tirando fuori dal cassetto pellicole non propriamente attesissime, stagionate in un limbo non meglio specificato per mesi, talvolta anni. Su questo sistema organizzativo, sulle cause e sugli effetti, potremmo dibattere fino a Ferragosto e oltre: per una volta, cerchiamo di vederne le ricadute cinefile.
Il lato positivo è che, sgombro da blockbuster e film che monopolizzano le sale, il circuito cinematografico italiano trova finalmente spazio per il cinema europeo e quello autoriale. Nel caso specifico, se come me amate le franceserie cinematografiche (così numerose da faticare a trovare spazio durante l’anno, nonostante la presenza settimanale più o meno fissa in sala) questa settimana avrete l’occasione di ritrovare in sala alcuni attori e registi d’Oltralpe con un pedrigree di tutto rispetto, con tanto di Palma d’Oro: Laurent Cantet con L’Atelier e Thomas Lilti con Ippocrate.

Il fato ha voluto che a sbarcare nei nostri cinema in un ideale tandem di cinema francese fossero due film che sono esempio perfetto di tematiche che sono ormai quasi prerogativa esclusiva del cinema francofono: l’insegnamento nelle scuole e l’assistenza sanitaria sul territorio. Da qualche parte vecchie e nuove leve del loro cinema autoriale devono aver sentito un collegamento con la francesità stessa di queste due professioni, un liberté égalité fraternité che arde ancora inalterato tra i banchi dei licei e tra le corsie d’ospedale. Altrimenti diventa molto difficile spiegare razionalmente l’impressionante numero di volenterosi medici della mutua che percorre la campagna francese e lo stuolo di professori che fanno i conti con le diversità culturali della scuola multietnica che ogni anno approdano da noi (quindi il dubbio è che ce ne sia un numero ancora maggiore in patria).

Uno dei principali responsabili di questo trend è proprio Laurent Cantet, regista di una delle più struggenti palme d’oro dell’ultimo decennio. L’influenza di un film come La Classe sul cinema francese si sente ancora fortissima, con un paio di epigoni l’anno che tentano di eguagliare uno dei più grandi racconti d’insegnamento e confronto umano mai visti al cinema.
In L’atelier Cantet (che rimane come regista, e si fa affiancare alla sceneggiatura da un certo Robin Campillo) tenta un po’ di smarcarsi da quel precedente pesantissimo, uscendo dalla scuola fisica, ma mantenendo il rapporto tra un adulto che insegna e dei ragazzi più o meno interessati che ascoltano.
Stavolta siamo nel sud della Francia, a La Ciotat, scomodo monumento portuale al passato cantieristico e comunista francese, entrato definitivamente in crisi economica e spirituale. Affacciata sul mare ma deturpata dai resti di un passato industriale che solo gli anziani ricordano con orgoglio, La Ciotat è affollata di giovani senza lavoro, affidati a una nota scrittrice parigina per un workshop a tema scrittura.
L’inevitabile scontro tra agiata borghesia parigina e proletariato diretto e spiccio si consuma in un lento crescendo di tensione tra il thriller e l’erotico (perché è pur sempre un film francese, per giunta scritto da Campillo).
La scrittrice della gauche parigina più volenterosa e retorica si scontra con un ragazzo in aperto conflitto con il resto del gruppo per le sue posizioni xenofofobe e fasciste, malcelate dietro le continue provocazione lanciate ai coetanei. Ci fossero altri nomi dietro la sceneggiatura e dietro la macchina da presa, si rischierebbe una semplificazione del fenomeno e del personaggio, un’ottima occasione sprecata come il precedente francese A casa nostra.
Campillo e Laurent invece si prendono tutto il tempo per non intrappolare il giovane ultranaziolista nello stereotipo del ragazzetto povero di risorse che interiorizza la xenofobia strisciante di un ambiente familiare non propriamente stimolante a livello culturale. Anzi, a risaltare per contrasto in tutte le sue posizioni preconcette e precostituite è la banalità della protagonista adulta, che si rivela ben presto incapace di dare un risposta autentica al protagonista, alla ricerca di un disperato equilibrio.

L’aspetto più riuscito e impressionante di L’Atelier è la capacità di montare all’infinito la tensione tenendo l’intero film sull’orlo di una catastrofe, di un gesto sconsiderato e violento che il giovane protagonista sembra sempre lì lì per compiere. Dalla visione di L’Atelier si ricava un’impressione nettissima di un’inquietudine senza tregua, di una lunga serie di momenti cruciali in cui per un millesimo di secondo o un battito di ciglia il tormentato protagonista e i suoi altrettanto confusi amici scansino un gesto da cui non si torna indietro. L’Atalier insomma è capace di catturare la “normalità” di chi gestisce a malapena la rabbia, la passione e il senso d’inadeguatezza e spiega benissimo come basti un attimo perché una situazione difficile possa trasformarsi in un orrore da prima pagina. Il confronto è diretto con La Classe (che è ancora attuale eppure chiaramente legato a un’epoca ormai conclusa) e affronta di petto le conseguenze degli attacchi terroristici in Francia. Il Bataclan, Nizza e gli altri hanno lasciato un’energia non scaricata nelle persone, specie nei giovani, rendendo l’argomento terrorismo una vera polveriera, complicando ancora di più le relazioni quotidiane tra etnie.
Il grosso limite del film è che si prende davvero tutto il tempo necessario per costruire questa opprimente sensazione di catastrofe inevitabile ed imminente, partendo forse da troppo lontano e mettendoci troppo minutaggio perché si possa scongiurare per tutti il pericolo della noia. Inoltre a differenza dell’ineccepibile La Classe, qui qualche comodo giudizio preconfezionato Campillo e Cantet se lo concedono, vedi il pretestuosissimo utilizzo di spezzoni di videogiochi (il film si apre con quello che credo sia un gameplay di The Witcher), un giudizio indiretto fornito dal regista con un pressapochismo degno di un approfondimento pomeridiano televisivo italiano. Possibile che un film del 2017 ignori ancora che il mondo videoludico è ormai una realtà trasversale per età, classe sociale e grado culturale dei giocanti?
Insomma, ne vale la pena, anche se con qualche riserva: certo solo un regista francese poteva pensare di fronte a questi argomenti di montare anche un così intenso gioco di seduzione, di rendere quasi tangibile la reciproca, distruttiva attrazione tra i due protagonisti con un age gap degno degli attuali inquilini dell’Eliseo.

Non altrettanto intrigante ma sicuramente gradevole è invece Ippocrate, il film di Thomas Lilti che arriva in sala in Italia con un ritardo tale da non ammettere scusanti: quattro anni. Il dubbio che un po’ (troppo) tempo sia passato dalla realizzazione del film lo si ha alla prima battuta su Dottor House. Ippocrate è infatti un lungometraggio del 2014 in cui Lilti torna sul suo tema principe e palesemente autobiografico: non serve sfogliare il press book per indovinare che tra le corsie d’ospedale e i tormenti interiori dei giovani internisti in un modo o nell’altro ha vissuto anche il regista, prima di darsi al cinema.
Stavolta si può dire che potrebbe essere tranquillamente un film di casa nostra, se non fosse che il tema della sanità e dell’assistenza lontano dai grandi centri è particolarmente sentito in un paese che, al di fuori della capitale, deve continuamente fare fronte a grandi distese agresti e piccoli conglomerati rurali. La struttura narrativa è però basata su contrapposizioni così basilari che potrebbe essere farina del nostro cinema. Il microcosmo dell’ospedale trasformato in un business economico e disumanizzante tale da mettere in crisi le “vocazioni” degli internisti, un crogiolo di etnie, migranti, status sociali e pendolari da cui emerge la coppia dei protagonisti. Uno è il giovane e ipocrita figlio del primario che punta a stare simpatico a tutti, uniformandosi alle regole scritte e non dell’ospedale. L’altro è un algerino che teoricamente sarebbe già un medico fatto e finito, ma per fare carriera e vedersi riconosciuti i suoi titoli deve seguire lo stesso apprendistato dei suoi più giovani colleghi.
Il resto si scrive da sé, compresa una vaga allure bromantica di due mondi diversi che si incontrano, si scontrano e alla fine si ammirano (e quindi magari pure si shippano): uno giovane parigino festaiolo in crisi esistenziale di fronte alla prima morte e al primo errore, l’altro ascetico internista ligio al dovere e al suo codice morale interiore. Ippocrate e i due casi clinici cardine attorno a cui ruota (una morte dovuta a un malfunzionamento di un macchinario e un caso cronico di difficile gestione per via della mancanza di posti letto) può sorprendere davvero solo chi con enorme fortuna di non aver avuto a che fare di recente e da vicino con la sanità anche italiana, gestita da manager, che ha come metro base non la salute umana ma i parametri.
Non sono quindi del tutto certa che – oltre il comprensibile valore umano della vicenda – Ippocrate abbia qualcosa da dire a livello cinematografico, soprattutto per come sul finale senta l’esigenza (quella sì italianissima) di sistemare tutte le faccende in sospeso in modo persino troppo pulito. Per fortuna nostra e di Lilti, a guidare il film in acque più sicure ci sono due interpreti molto bravi e perfetti per il ruolo assegnato: la faccia da schiaffi di Vincent Lacoste e l’aura di saggezza di Reda Kateb (volti già familiari, visti qua e là in pellicole francesi degli ultimi anni) fanno davvero la differenza.