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Anton Corbijn, Daniel Brühl, father issue, Grigoriy Dobrygin, Homayoun Ershadi, i nostri amici arabi, John le Carré, Mehdi Dehbi, Nina Hoss, Philip Seymour Hoffman, Rachel McAdams, Robin Wright, uno spia l'altro pure, Willem Dafoe
Non ho mai fatto mistero della mia totale, assoluta adorazione per il film “La Talpa”, perciò mi fa molto piacere vedere come la lezione di Alfredson su come sia ancora possibile fare un film di spionaggio assolutamente perfetto abbia spinto tanti produttori a investire su questo filone. Produttori europei impegnati a rivalutare un genere affossato da una serie di pellicole americane che avevano ridotto l’intelligence a un guazzabuglio roboante di gadget supertecnologici e vendette personali #perlalibertà, dividendo il mondo in americani buoni costretti a fare cose brutte per fermare gli arabi cattivi.
A most wanted man continua il lavoro di rilancio del genere affrontando il passo successivo; se infatti “La talpa” era aiutata nel suo porre di nuovo l’accento sulla componente umana dall’ambientazione tecnologicamente arcaica della Guerra Fredda, stavolta l’ambientazione è praticamente contemporanea.
Ancora una volta il cinema di spionaggio torna ad attingere allo scrittore per antonomasia di questo genere, l’inglese John la Carré, concentratosi nell’ultimo decennio su una serie di romanzi fortemente critici verso le strategie interventiste dell’intelligence americana pre e post Undici settembre. “La spia” (ripubblicato in questi giorni da Mondadori, che precedentemente l’aveva dato alle stampe con il titolo “Yssa il buono”) è la summa della posizione critica di Le Carré, pur essendo ambientato lontatissimo da Washington. In quel di Amburgo opera ai confini della rete ufficiale tedesca Günther Bachmann, un agente di lunga esperienza che con il suo team si occupa di quegli incarichi “grigi” di cui il governo locale non si vuole assumere la responsabilità. Anziano, sovrappeso, solitario e totalmente dedito al suo lavoro, Bachmann sta costruendo una rete di informatori tra gli esponenti islamici moderati che vivono in città, con l’unico scopo di avvicinare un filantropo arabo che lui sospetta finanziare segretamente Al Qaeda. L’obiettivo finale di Bachmann è quello di arruolarlo per arrivare ai pezzi grossi dell’organizzazione, ma un recente, colossale fallimento in medioriente lo porta ad essere molto cauto nelle sue mosse.
Per certi versi il personaggio magistralmente interpretato da Philip Seymour Hoffman rappresenta il più classico degli stereotipi di genere, in cui si coniugano sgretolatezza nella cura della propria persona e approccio certosino al lavoro, una manipolazione degli informatori e il continuo sospetto paranoico di essere manipolati, una serie di maschere da indossare che finiscono per rivelare moltissimo della persona solitaria che ci si nasconde dietro. Fortunatamente Hoffman riesce a rimanere nel canone del genere e nel contempo a donare umanità al suo personaggio, con una recitazione trattenuta e millesimale che si concede l’attenzione piena solo sul gran finale, un’ottima chiusa, giusto un filo sorniona, tra le più belle viste quest’anno. In mano ad un altro attore si sarebbe potuto trasformare nel solito personaggio sgretolato ed eccessivo, invece il Bachmann di Hoffman è misurato e riflessivo, realistico ma sempre all’altezza delle interpretazioni dei grandi che si avvicendano al suo fianco. da Willem Dafoe a Robin Right.
Il resto lo fa al solito la trama intessuta da John Le Carré, decisamente più lineare rispetto al passato ma comunque ricca di suspance e dilemmi morali. In particolare il personaggio di Issa risulta affascinante perché sfugge costantemente ad intepretazione: è un musulmano ceceno sfuggito alla polizia russa, ma è davvero un buono di cui Bachmann può servirsi per arrivare alla sua preda o potrebbe diventare una minaccia nel giro di una notte? Stessa cosa per il magnate arabo e il banchiere di Dafoe, con cui il film gioca a un continuo ribaltamento tra stereotipo e fini nascosti.
L’aspetto forse più riuscito della pellicola è il suo mettere al centro il lavoro delle spie, inteso come vero e proprio impiego, lontano dagli exploit tecnologici o dalle rocambolesche fughe che erano fuorisciti dai confini bondiani per invadere tutto il genere. Nonostante il film sia praticamente contemporaneo, la tecnologia cede quasi sempre il passo al lavoro d’ufficio, ai rapporti cartacei sulla scrivania, al battere i marciapiedi e pedinare i sospetti, fino a mescolarsi con la comunità islamica cittadina. Bachmann e i suoi inoltre approcciano le loro mansioni alla stregua di ogni altro lavoro, coscienti di aiutare il mantenimento dell’ordine pubblico ma mai animati da astio pregresso verso coloro che tentano di intercettare.
Aver girato il film interamente in Germania è una scelta che ha pagato molto, perché quando la regia di Anton Corbijn è a corto d’idee a sostenere il film basta quell’atmosfera continentale che lo impregna, estremamente realistica ma non priva di un austero fascino cinematografico. Certo, qualcuno di più navigato ed ispirato chissà cosa ci avrebbe tirato fuori, però anche il risultato in questi giorni in sala è più che buono.
Lo vado a vedere? La spia è davvero un bel film di spionaggio e una pellicola molto riuscita, sopra la media di quanto passa nelle nostresala. Bella storia ottimamente adattata, personaggi ben interpretati, regia ben gestita, produzione curata. C’è solo da sperare che i prossimi adattamenti di La Carré già annunciati mantengano questo notevole livello.
Ci shippo qualcuno? Scoccia un po’ dirlo dopo che la Talpa ha generato con le sue mirabolanti ed inaspettate ship la tag “l’urlo silenzioso della fangirl in incognito” ma direi di no, dannazione.