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Cari lettori, proprio quando avevo ripreso un bel ritmo, flu happened. E non è nemmeno vero che ciò che non ci uccide ci fortifica, perché sono ancora qui ma con l’energia e la prestanza di un panda rosso, notoriamente gli animali più stupidi, imbranati e fisiologicamente atti ad estinguersi per incapacità latente del globo terracqueo. O di un kiwi, un uccelletto che non sa volare, è grassoccio e per cui probabilmente anche la propria ombra potrebbe risultare mortale.

Per la serie: su gerundiopresente i pazienti saranno ricompensanti…in ritardo. Non perdete mai le speranze. Ed ecco a voi le recensioni sintetiche e ficcanti di tutti, tutti i film in concorso a Venezia 74, Leone d’Oro compreso, in arrivo nelle sale da domani. 

Se fossi in voi non tratterei troppo il fiato, un po’ come accaduto per Cannes 70. In rigoroso ordine qualitativo crescente (perché qui ci sbilanciamo, gente), dall’orrore all’amore: iniziamo!

Human Flow di Ai Weiwei
L’artista dissidente cinese compie un viaggio attraverso l’Europa, l’Africa e l’Asia per raccontare il fenomeno delle migrazioni, le voci di quanti fuggono, di chi li aiuta e la condizione di precarietà del loro viaggio. 

Il peggior film visto in Mostra, tanto da suscitarmi un certo sconcerto la domanda durante la conferenza stampa finale sul perché la Giuria non avesse premiato Weiwei, come se il presunto valore politico o sociale di un lungometraggio scalzasse tutto il resto. La Mostra è innanzitutto cinematografica e qui di cinema documentaristico se ne trova pochissimo: chiaramente non è né il mestiere né l’interesse principale dell’artista, diviso tra ossessive riprese di droni che planano sui campi profughi come un 15enne appassionato di robotica e fastidiosissimi interventi personalistici nelle vicende, come quando insiste con un migrante per far scambio di passaporti (prego?). Basta seguire solo di sfuggita i TG italiani per conoscere molte delle realtà che il suo documentario tocca appena superficialmente, senza una scaletta o un filo conduttore più preciso del “migranti, poverini”. In Mostra il tema è stato toccato in maniera cinematograficamente e umanamente migliore da tanti altri, senza dimenticare che il tanto vituperato Rosi con Fuocoammare ci arrivò molto prima e – diciamolo – molto meglio.

Una famiglia di Sebastiano Riso
Una coppia concepisce ciclicamente figli che, appena nati, verranno ceduti dietro compenso a persone abbienti che non riescono ad accedere al sistema delle adozioni o non sono fertili, ma vogliono avere un figlio. Nel duo dei protagonisti l’uomo esercita anche con la violenza un profondo ascendente sulla donna, fragile e dipendente da lui a livello psicologico.

Il film peggiore dell’intera edizione secondo la critica, mentre io non l’ho trovato così tremendo in una Mostra senza grandi picchi ma anche fortunatamente priva di gravi insufficienze. Oltre a una regia piuttosto bruttarella, secondo me la grande pecca del lungometraggio di Riso è quella di incarnare un certo cinema italiano che cerca la denuncia sociale a tutti i costi, retorico e noioso in un anno in cui il resto dei film tricolori si sono davvero sforzati di percorrere strade diverse. Il mio dubbio è che chi l’ha massacrato senza pietà frequenti solo il cinema italiano che poi si vede ai David di Donatello, perché quando vedi come il film approccia senza facili giudizi la coppia protagonista e quelle sterili / omosessuali in cerca di un figlio, non puoi che tirare un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo.

Downsizing  di Alexander Payne
Uno scienziato norvegese scopre un processo in grado di miniaturizzare gli esseri umani e ridurre il loro impatto sull’ambiente. Allettato dagli enormi vantaggi economici e dalla promessa di una vita da re, Paul convince la compagna a  intraprendere il processo di miniaturizzazione. Una volta diventato alto 12 cm, scoprirà che certe ingiustizie vengono perpetrate anche su scala ridotta. 

Payne l’ha definita la sua allegra commedia apocalittica e sicuramente il suo sguardo è meno cupo del passato. Il problema è però rimane quello: uno sguardo che vaga irrequieto e non coglie le occasioni, le rifugge. Downsizing intavola un discorso sui cambiamenti climatici, l’egoismo dell’uomo e le storpiature di fondo classiste della società statunitense. Il film brillante e tagliente che vorrebbe essere è tutto lì, ma Payne fatica a porre qualche domanda, figuriamoci se si arrischia a sbilanciarsi in qualche risposta o condanna. Quel Matt Damon asservito alle donne, bolso e incapace di prende una decisione che sia una che gli fa da protagonista funziona soprattutto come metafora del film stesso.
[RECE]

Sweet Country di Warwick Thornthon
Nell’Australia parecchio selvaggia del 1929 un aborigeno di nome Wilaberta Jack venne processato per aver ucciso un uomo bianco: il film racconta la sua storia e i soprusi e il razzismo di cui sono state oggetto le popolazioni aborigene da parte dei conquistatori bianchi. 

A livello formale l’unica pellicola australiana in concorso è ineccepibile: girate e montata a puntino, nel bel mezzo dell’Australia più selvaggia che mai. La natura sconfinata del continente da sola fa la metà del lavoro. Thornthon si occupa da tempo della questione aborigena, per certi aspetti ancora più violenta e radicale di quella afroamericana negli Stati Uniti, stavolta declinandola in un western che segue a menadito tutte le regole del genere. Il problema è proprio quello: a dispetto del titolo Sweet Country è un film duro, durissimo, senza uno spiraglio o una vita d’uscita, tanto da risultare più noioso che brutale, incapace com’è di dire una singola cosa sua che non si perda nei meandri del genere western. Sicuramente avrà pesato il fatto che io non ami molto il selvaggio West, ma non è certo True Grit. Dimenticabile e tutto sommato trascurabile.

Suburbicon di George Clooney
Un ragazzino assiste sgomento alla morte della madre durante una strana rapina casalinga. Nelle settimane successive la zia e il padre cominciano ad agire in maniera sempre più losca senza che nessuno nell’idilliaco sobborgo di Suburbicon si renda conto di quanto sta succedendo. L’attenzione di tutti è concentrata sull’arrivo della prima famiglia afroamericana del circondario, che scatena paure e reazioni violente.

Accolta con un certo grado di freddezza dalla critica, palesemente risentita per quanto “osato” da Clooney nel riscrivere materiale coeniano, Suburbicon in realtà si lascia vedere senza troppo ferire o annoiare, con la maggior parte dei film di Clooney regista. Viene però azzoppato da due difetti mortali: il primo è che l’età che si porta addosso lo spunto si sente tutta. Il razzismo negli Stati Uniti è ancora drammaticamente attuale, ma non con questa modalità di narrazione e denuncia cinematografica. Il tranquillo vicinato bianco americano nasconde i veri mostri: abbiamo capito, grazie.
Secondo problema e qui siamo in recidiva: Matt Damon ha mai dimostrato un talento spiccato per ruoli dallo humour nero o “oscuri” (e sono magnanima nel non piazzare il punto di domanda già dopo “un talento”)? No. E allora perché insistere a prenderlo come protagonista assoluto di film che devono appoggiarsi a lui, specie quando poi in 5 minuti Oscar Isaac lo annichilisce? Isaac, guarda un po’, lanciato proprio da un certo duo di fratelli registi.
[RECE]

Ammore e malavita di Manetti Bros.
Un boss della camorra escogita con la moglie un piano per fingersi morto e godersi il proprio denaro lontano da Napoli. La situazione di complica quando un’infermiera scopre l’inganno e viene inviato ad ucciderla un killer a cui era legata sentimentalmente da ragazza. 

Napulidipity continua e assoluta nel 2017 cinematografico italiano, con tanto di discreto consenso anche straniero per il film più “ardito” tra quelli della spedizione italiana/Rai Cinema.
Peccato che nel “La La Land” napoletano lo spunto geniale e musical che infiamma l’apertura del film finisce ben presto per bruciare il film nella banalità più tradizionale, buonista e partenopea che si possa immaginare, con un cast non sempre all’altezza dei ruoli caricaturali che si ritrova per le mani. La grande abilità dei Manetti di tuffarsi a piene mai nei generi e nel territorio da b movie finisce ancora una volta per trasformarsi nel peggior difetto della pellicola, di cui ben presto perdono il controllo. Vedi Napoli (diversa dal solito) e poi muori: se continua così, rischio l’immortalità.
[RECE]

The Leisure Seeker di Paolo Virzì
Una coppia di anziani coniugi parte con il vecchio camper di famiglia per un’ultima vacanza contro il parere di medici e figli: lui ha una malattia degenerativa che lo rende imprevedibile, lei è determinata a ripercorrere gli itinerari di famiglia un’ultima volta.

Un sicuro segnale dell’arrivo dei Quattro Cavalieri dell’Apocalisse sarà un Festival cinematografico europeo che non comprenda almeno un paio di esempi di gerontocinema: la Terra è salva, a Venezia proprio grazie alla compagine italiana. Virzì sceglie un road movie americano e due grande attori anglofoni per il suo primo film internazionale, adattando un romanzo di Michael Zadoorian. Il risultato finale non sfigura di fronte ad altre (noiose e prevedibili) pellicole sulla stessa lunghezza d’onda e anzi: Virzì e il suo tocco italiano sono sostanzialmente non pervenuti. Virzì sbaglia a puntare al ribasso in chiave politica e umana, affidandosi agli anziani in cerca di (impossibile) riscatto in una visione così semplicistica e superficiale dell’american life, della malattia e della morte che chi ha avuto a che fare in prima persona con un malato troverà poco attendibile e ipocrita il personaggio di Sutherland.

First Reformed di Paul Schrader
In coincidenza di un’importante anniversario per la sua congregazione riformista, un prete vive una profonda crisi interiore, dopo non essere riuscito a sostenere un ambientalista radicalizzatosi e sposato con una fedele della sua parrocchia.

Ethan Hawke e Paul Schrader non raccoglievano da tempo consensi così solidi ma mi hanno lasciato entrambi perplessa e sull’orlo della risatina imbarazzata. Il rigore espressivo e morale con cui Schrader racconta la secolarizzazione e la trasformazione in business del mondo religioso e della fede mettono a segno un paio di momenti di bellezza cristallina. First Reformed ha il gran pregio di non accontentarsi e pigiare l’acceleratore verso le estreme conseguenze e la pura visionarietà. E quando tenti e non ti accontenti, alle volte ne esce una perla visionaria come Under The Skin, altre volte la mandi un po’ in vacca, come è stato per me qui. I fan del regista però erano molto soddisfatti, quindi se anche voi lo siete non tutto è perduto.
[RECE]

Foxtrot di Samuel Maoz 
Una facoltosa famiglia israeliana viene dilaniata dalla notizia che il figlio è stato ucciso durante la leva obbligatoria. La madre completamente annichilita dal dolore e il padre che a malapena trattiene la rabbia dovranno affrontare un’ancor più drammatica e paradossale rivelazione di quanto successo al checkpoint dove prestava il servizio il ragazzo.

Recuperato frettolosamente dopo la vittoria del Leone d’Argento, l’ho infilato nonostante l’estrema stanchezza a tarda notte, per pura smania completista. Il film di Maoz non ha goduto insomma della mia massima presenza e attenzione e i ricordi, nonostante la forza della denuncia politica e le svolte stranianti e durissime della trama, non sono proprio nitidissimi. A Venezia è stato parecchio polarizzante, tra chi parlava di irriverenza e chi di paraculaggine. La forza di una regia angolare e nettissima c’è, ma ha ottenuto l’esito peggiore: non mi ha suscitato una reazione degna di nota. Probabilmente devo dargli il beneficio di una seconda, meno affrettata visione.

Hannah di Andrea Pallaoro
Un’anziana signora porta avanti la sua metodica routine quotidiana senza quasi aver contatti verbali con altri: il marito sembra assente da casa contro la sua volontà e il figlio dimostra un astio violento nei confronti della donna, tanto da negarle i contatti col nipotino. Qual è la colpa di cui si è macchiata Hannah ed è davvero pentita della sua scelta?L’altra faccia del gerontocinema e se proprio di anzianitudine dobbiamo morire, allora io preferisco la regia saputissima ma elegante di Andrea Pallaoro. Certo ad arrivare al punto ci mette letteralmente tutto il film ma in questo caso ovviamente lo scopo è proprio l’immersione in una routine di cui non abbiamo la chiave di lettura, la cui protagonista sguscia via continuamente dal recinto della vittima e da quello del carnefice. I tratti da vicina buca-palloni di Charlotte Rampling e la sua capacità di portarsi in giro il film fanno il resto. Non è particolarmente originale e capisco perfettamente chi l’ha trovato lento e saputo, tuttavia io sono rimasta accalappiata, soprattutto da un certo rigore estetico di Pallaoro. Certo che con una amica fidata come la Rampling a disposizione quanti registi italiani potrebbero essere quantomeno decenti?

Jia Nian Hua di Vivian Qu
In una cittadina costiera cinese, una giovanissima cameriera di hotel è suo malgrado testimone di un abuso sessuale ai danni di due bambine. A sua volta intrappolata in una precaria situazione economica e senza i documenti in regola, la ragazzina dovrà decidere se rivelare la verità alla polizia. Storia forte ma empatica e piena di pietas per le giovani protagoniste, un punto di vista inconsueto della testimone a sua volta vittima, una Cina a metà tra i centri rurali e le grandi megalopoli, giovanissime interpreti intense: Angels Wears White sulla carta ha davvero tutto per essere un film di grande intensità emozionale ed espressiva, eppure lascia dietro di sé una traccia molto timida.
Rispetto alla media a me – che sono spesso in naturale sintonia col cinema orientale – è piaciuto in maniera più convinta. Anche qui siamo in territorio mediano e un po’ piacione nel fabbricare immagini come quella che chiude il film: belle ma fini a sé stesse.

Ex Libris – The New York Public Library di Frederick Wiseman
Un viaggio sistematico e approfonditissimo per i mille e uno meandri in cui si fonde e sdoppia più che una biblioteca, un’ente e un’istituzione newyorkese: la vastità stupefacente del sapere umano è quasi doppiata da quella dello sforzo collettivo per renderlo fruibile, economicamente sostenibile, aggiornato, appetibile e democratico.

Basta il nome di Frederick Wiseman a descrivere questo documentario, che tra le sue ultime opere è probabilmente il migliore. Ex libris è Wiseman, puro Wiseman dal concetto alla realizzazione. Stavolta il suo amore per l’istituzione che racconta e l’eccezionalità stessa della NYPL rendono Ex Libris davvero una visione emozionante. Rimango però dell’idea che un minutaggio mostruoso di 197′ più che il marchio di fabbrica di Wiseman sia il suo tallone d’Achille. Certo esploriamo in lungo e in largo una delle più complesse istituzioni del sapere mondiale, ma né 200 né 400 minuti potranno mai sintetizzarla a dovere. Alle volte il vero coraggio sta nell’operare delle scelte esclusive, come peraltro racconta benissimo il documentario quando esplora la difficilissima quadratura economica delle attività della biblioteca pubblica newyorkese. Se davvero Wiseman aspira al Leone, dovrà scendere a patti con questa necessità. Rimane un grandissimo documentario, di quelli che ti convincono davvero che la cultura ci salverà tutti.

Madre! di Darren Aronofsky
Una giovane donna e il suo compagno scrittore vivono lontano da tutto e da tutti, nell’attesa paziente e carica di tensioni sotterranee che lui partorisca la sua nuova opera. Quando alcuni misteriosi individui cominciano a interrompere la loro attività, la donna senza la tenuta della sua relazione minacciata così come i confini del suo rifugio domestico.

Non c’è stato film più discusso di questo in Laguna e in parecchi di voi mi hanno chiesto cosa ne pensassi. Sarà perché ricordo ancora con terrore (quello sì autentico) il precedente Noah, sarà perché preferisco di gran lunga chi la spara grossa e sbaglia spettacolarmente alle operazioni paracule, ma io Madre! me lo sono discretamente goduta. I grandi sono arrivati in Laguna con tanti Messaggi Importanti e cose serieeee da dire, lui si è scritto in un weekend un film di genere che ogni volta che apre bocca a riguardo è palese che non sa nemmeno lui di cosa sia l’allegoria. Antico testamento e fattacci personalissimi e molto intimi della coppia che forma con Jennifer Lawrence esposti in egual misura sulla pubblica piazza, per un film che trae la sua forza dall’osare senza stare troppo a prendere le misure, istintivo e personale e figlio del momento e della relazione tra i due, tra loro e la stampa, tra la loro immagine pubblica e i rapporti di forza interni tra musa super star e regista artistoide e cazzaro. Posto che Jennifer Lawrence deve essere accecata d’amore per essersi sottoposta a questo maltrattamento psicologico e che tra una decina d’anni chissà che storiacce tremende ci racconterà a riguardo, è forse il film più appassionato e innamorato dell’atto di fare cinema visto in Mostra, che mette lì la sua storia per girare una seconda parte delirante e visivamente suggestiva nella sua esagerazione. Cioè, come pensate che apparissero i filmacci cult di genere italiani degli anni ’70 ’80 il cui punto, diciamocelo, non era proprio la coerenza interna della storia né il trattamento delle povere protagoniste?

L’insulto di Ziad Doueiri
Durante lo svolgimento di lavori di riqualificazione pubblici, un rifugiato palestinese facente funzione di capocantiere finisce per insultare un corpulento marito libanese di fede cristiana. La diatriba tra i due tra torti, accuse, rimostranze e aule giudiziarie conosce un’escalation tale da diventare un caso nazionale, riaccendendo il nazionalismo libanese e le rivendicazioni palestinesi.

In un’annata veneziana migliore questo bizzarro legal drama libanese non avrebbe avuto la rilevanza necessaria a strappare una nomination agli Oscar, ma lungi da me lamentarmi di una pellicola giudiziaria riuscita e intensa che sembra promettere noiose questioni menagrame mediorientali e pam! finisce in un’aula di tribunale con tanto di obiezione vostro onore, figli segreti, colpi di scena e ribaltoni a profusione.
Mai avrei pensato di vedere una storia in cui ci sono tante versioni differenti dell’evento scatenante quanti personaggi (e hanno tutti torto marcio) come nel più classico degli incipit di Asgar Farhadi, insaporita dal gusto tipicamente arabo per una patinatura quasi soapoperistica, sia nei colori sia nelle svolte narrative. Siamo sempre a un niente dal paternalismo spiccio e dalla pacchianata televisiva, eppure l’ottima performance di Kamel El Basha riesce a mantenere fino alla fine il film in bilico.

Lean on Pete di Andrew Haigh
Trasferitosi con il padre a Portland, un quindicenne sull’orlo dell’indigenza economica e in perenne carenza affettiva sbarca il lunario lavorando in un ippodromo. La sua amicizia con un vecchio ronzino di nome Lean On Pete sembra l’unica luce nella sua giovane e già disperata vita, ma ha già le ore contate.

Se il film di Andrew Haigh non ha deluso è merito del talento cristallino di Charlie Plummer, che risplende letteralmente nelle sfumature drammatiche ed emozionali di un racconto adolescenziale durissimo e senza sconti, ma tutto sommato molto convenzionale. Probabilmente avrei amato molto di più questo film se non avessi avuto l’enorme, gigantesca fortuna di vedere la sua versione più compiuta e – incredibile ma vero – ancora più straziante: The Rider di Chloé Zhao. Che non a caso stava in Quinzaine des Réalisateurs a Cannes, dove si sono visti alcuni dei migliori film autoriali dell’annata (molto più dello stesso concorso della Croisette).

La forma dell’acqua di Guillermo del Toro
Un’inserviente sordomuta di un laboratorio militare statunitense fa amicizia con una misteriosa creatura acquatica catturata dai militari e sottoposta a violenti esperimenti. Con l’aiuto di una collega afroamericana e di uno squattrinato artista queer suo vicino di casa, tenterà di salvare la vita e donare la libertà all’essere misterioso.

Trascuriamo per un momento l’enorme debito concettuale e visivo che ha nei confronti di Il Mostro della Laguna Nera (ma io non dimentico, Guillermo) e fingiamo che questa romantica storia di rivalsa degli oppressi e dimenticati di un’America orgogliosamente bianca, paternalista, militarista, eterosessuale e conformante non vadano a toccare qualche nervo scoperto della nostra contemporaneità. Quello di Del Toro è indubbiamente un film di squisita fattura e figlio di un grande amore per il cinema classico, che segna un suo ritorno in forma dopo qualche passo falso.
Tuttavia da qui ad avere un front runner per gli Oscar lo stacco dovrebbe essere ben più netto, invece tutta la forza e tutti i limiti del cinema del regista messicano continuano a ripetersi, in un gioco di specchi in cui tutto ricorda qualcosa visto altrove, in altri classici, del suo repertorio o del cinema dei mostri Universal.
Per un Richard Jenkins impressionante (e occhio anche al notevole Michael Stuhlbarg) c’è un Michael Shannon costretto nell’unico cattivo possibile per giustificare la narrazione elementare, quasi adolescenziale di Del Toro: quello cattivo per retaggio paterno e per pulsione sessuale represso, quello cattivo e basta. Come al solito manca una profondità specifica nei personaggi e nelle loro interazioni, tanto che la vicenda assume da subito toni incantati, fiabeschi, di figure senza tempo che seguono schemi di comportamento già tracciati da Propp e dalla tradizione orale.
Non temete, lo adorerete comunque, vi emozionerà e vi scalderà il cuore. Sono io che vorrei che a una complessità cromatica e registica esteticamente appagante corrispondesse una scrittura finalmente adulta, non da eterno adolescente.

Mektoub, My Love: Canto Uno di Abdellatif Kechiche
Nell’estate francese del 1994, Amin torna nel villaggio rurale dove è cresciuto e scopre che la sua amica d’infanzia ha una tresca con il cugino, mentre il marito è assente, lontano per una missione dell’esercito. Da sempre attratto dalla ragazza, Amin trascorrerà le vacanze estive tentato dalle belle turiste presenti, dalla voglia di mettere al frutto il suo crescente talento artistico, avviluppato nei complicati rapporti amicali del gruppo di ragazzi, villeggianti e autoctoni con cui trascorrerà giornate al mare e notti in discoteca.

Abdellatif Kechiche si è venduto la Palma d’Oro vinta con La Vie d’Adele e parecchi oggetti di scena per realizzare questo film incredibile, che per intensità emotiva e cinematografica fa impallidire tutti, da Guillermo in giù. Mi piange davvero il cuore nel dover quindi ammettere che anche lui è entrato nel novero dei registi che non vanno lasciati in balia di sé stessi. Dentro Mektoub c’è un film potentissimo, una pietra miliare del cinema europeo, dell’estate della vita, un ritratto tra i più puntuali e vividi degli anni ’90. Il problema è che – come è capitato a Sorrentino e a mille altri – il plauso critico ha tolto a Kechiche la museruola del compromesso commerciale e produttivo. Completamente incapace di distinguere ciò che si può e ciò che si deve fare per la riuscita del film, il regista è completamente annegato in una tale deriva dei sensi e della gioia carnale di vivere che a tratti il suo sguardo insistito sui corpi rievoca il Bagaglino.
È il classico caso in cui un doloroso, drastico passaggio in sala di montaggio (dove si può tranquillamente seppellire almeno una delle due ore e mezza di durata del film) potrebbe consegnare un film diverso (e migliore) al pubblico che lo vedrà in sala. Alle volte succede. Speriamo che Kechiche rinsavisca, perché nel gruppone di giovanissimi attori sconosciuti che ha messo insieme più di uno meriterebbe di brillare per molto più delle sue procaci forme corporee.

Jusqu’à la garde di Xavier Legrand
Una coppia sulla via del divorzio lotta per l’affidamento dei figli: il giudice si persuade che entrambi tirino l’acqua al proprio mulino esagerando le colpe dell’altro e opta per l’affido condiviso. Man mano che le vide dei due coniugi prendono strade diverse emerge tutta la drammatica verità sulla fine del loro legame.


Il cinema francese è davvero un mondo a parte, dove c’è così sovrabbondanza di cose fatte bene che si manda a Venezia come film di risulta un esordio che parte come l’ennesima storia alla Asgar Farhadi e infila un’ultima mezz’ora che ti rivolta le budella e sale ripidissima verso una qualità cinematografica e narrativa difficilmente riconciliabile con un progetto dal budget tanto contenuto. Con buona pace di Farhadi, Xavier Legrand si sfila abilmente dal suo stesso gioco del “hanno tutti torto” e anzi, lo trasforma in un monito, spingendo lo spettatore nella scomoda posizione di chi si rende conto che al di là delle belle parole, una vittima a volte la riconosci solo quando il tuo pregiudizio ha aiutato a renderla tale. C’erano film più belli per il premio alla regia? Sì. Erano esordi fatti con due spicci e scritti con una semplicità disarmante e una forza che chiude lo stomaco? Mhhh, no.

La villa di Robert Guédiguian
Tre fratelli si ritrovano nella villa paterna per decidere cosa fare della proprietà dopo l’incombente dipartita del genitore. La casa dove hanno trascorso le loro estati si trova in una località marittima ormai disertata dai turisti, dove vivono solo i vecchi amici di famiglia e qualche pescatore locale. I tre fratelli si preparano a salutare il mondo della loro infanzia che sta scomparendo, una giovinezza che ormai è anche per loro irrevocabilmente conclusa e a scendere a patti con i contrasti che ne hanno diviso le strade anni prima.

Sempre cinema francese è, ma stavolta è di un veterano come Robert Guédiguian e stavolta è piaciuto solo a me, ma sono pronta difendere questo racconto intergenerazionale con le unghie e con i denti. In La Villa c’è dentro tutto l’umanesimo cinematografico che uno possa desiderare, dato che si passa con grande levità e delicatezza ad affrontare temi enormi come l’amore filiare, genitoriale, sensuale, quello nascente, quello al capolinea, quello folle e senza futuro, quello romantico e quello filantropico, con l’ombra della morte ovunque eppure una sottile traccia di speranza che aiuta a non perdere la strada.
A me ha lasciato un ricordo tenerissimo e certo sarebbe più semplice trovargli qualche difetto se le due principali obiezioni che gli vengono mosse non fosse così cretine. La prima lo taccia di essere disgustosamente filantropico per una svolta che avviene a 15 minuti dalla chiusa (che è ben lontana dall’essere il centro narrativo del film) (e con una ciofeca come Human Flow nella stessa competizione, your argument is invalid), la seconda è che sia terribilmente, tragicamente borghese, che alla luce di quanto i protagonisti stessi dicono a riguardo nella pellicola, significa non aver capito un accidenti. In Francia tra l’altro è pure andato benissimo al botteghino, gnegnegne. Io invece non mi sono ancora ripresa dall’emozione di vedere dal vivo la mia Anaïs Demoustier, così attesa che sul red carpet a fare le foto eravamo in 14. Ehm.
[RECE]

Sandome No Satsujin di Koreeda Hirokazu
Un giovane avvocato viene coinvolto nell’appello per evitare la pena di morte a un assassino reo confesso dell’uccisione del suo ex datore di lavoro. Il criminale però continua a cambiare versione dei fatti, complicando il lavoro dei suoi difensori.

Koreeda Hirokazu è il regista giapponese salutato come degno successore di Ozu che da quando ha dichiarato di voler fare film meno impegnati sta sfornando solo titoli stupefacenti (tipo questo o quest’altro). Da uno così versato nello slice of life e nel ritratto di vite comuni nel Giappone più quotidiano e tradizionale mai mi sarei aspettata il legal drama più bello da qualche anno a questa parte. Il guaio di Sandome no Satsujin è che è così sottile che la prima volta lo spettatore è ben lontano dal coglierne la vera potenza. La scrittura legale è impeccabile, il risvolto umano è al solito profondissimo e, una volta afferrato con chiarezza il messaggio del regista, la critica al sistema giudiziario giapponese è durissima e senza appello. L’ho visto due volte, l’ho apprezzato e capito davvero  solo alla seconda e prego che qualcuno lo distribuisca perché vorrei davvero infilare anche la terza. Kōji Yakusho è enorme, gigantesco, inaggettivabile.

Tre manifesti a Ebbing, Missouri di Martin McDonagh
La madre di una vittima di un omicidio irrisolto affitta tre manifesti pubblicitari lungo una strada poco frequentata per denunciare le carenze dell’indagine di polizia sul caso.

All’uscita dalla prima mondiale ero sicura di aver visto il mio film preferito di Venezia e se nel tempo l’ho ridimensionato nella mia scala di gradimento anno cinematografico 2017 è stato solo grazie a due pellicole gigantesche come Chiamami col tuo nome e Il Filo Nascosto (e grazie tante). Nonostante io sia un’eterna titubante messa in crisi dalla prima opinione dissonante ben argomentata, devo dire che non arretro di un centimetro nel giudizio finale di questo film.
Le ho lette tutte le critiche da mezza stelletta a Tre Manifesti, accusato di tutto e di più, partendo dal razzismo fino ad approdare a un nitpicking così pedante da apparire ridicolo. Posto che passati a un setaccio a maglie così fini i campioni di quella tifoseria come Get Out e Wonder Woman non ne uscirebbero vivi (vogliamo provare?), quest’idea che un film per essere “giusto” debba aderire millimetricamente al metro di valori dello spettatore da molesta sta diventando dannosa. Anche perché la versione approdata in sala ha visto tagli importanti e molto accorti del regista, che lasciato che certa violenza mostrata apertamente in Laguna vivesse solo delle allusioni dei protagonisti.
Ma se il problema è la vicinanza affettiva tra l’attacchino e la commessa afroamericana o la capacità di uomini violenti di essere talvolta dalla parte giusta allora non siamo nemmeno nella stessa galassia di un film che è un enorme cartellone di J’accuse all’impatto che ha una violenza sistematica, statalizzata e connaturata in una società come quella di Ebbing, in cui annegano dentro tutti, dal ragazzino mite che afferra senza nemmeno pensarci un coltello per difendere la madre a un adulto a cui sarebbe bastato un gesto di stima (e un corposo aiuto dei servizi sociali) per uscire dall’angolo senza redenzione in cui va a ficcarsi.
La differenza tra i cattivi delle fiabe di Del Toro e quelli della vita vera sta tutta qui: che ai secondi tocca pure riconoscere un’umanità  e che alla fine il mondo si divide tra chi contro ogni previsione o senso riesce a concepire il perdono anche se lo hai scagliato da una finestra e chi neppure di fronte a una futura felicità possibile riesce a perdonare o a perdonarsi.

E con questa spero sia davvero finita perché credo sia la sesta o settima volta che recensisco questo film.

In breve, i film fuori concorso/proiezioni speciali:
Our Souls at Night – Il gerontocinema glamour secondo Netflix. Si vede senza colpo ferire.
Victoria & Abdul – Vi prego, tenete ad almeno un oceano di distanza Stephen Frears da Judi Dench perché tira sempre fuori il peggior perbenista che è in lui.
Marvin – prendete il video di Moi…Lolita di Alizée e sostituite la cantante con un giovane drammaturgo gay che ha come fata madrina Isabelle Huppert, senza scordare una spruzzata di Billy Elliot. Carino e dimenticabile, a parte l’iconica scena in cui la divina Isabelle balla ad una festa sulle note di Stromae e telefona al protagonista esclamando “ciao, sono Isabelle Huppert” e paragonandolo a un gattino.
Le Fidèle – Una storia d’amore tormentatissima e in salsa fiamminga tra un malvivente e una pilota di gare sportive. Anche questo è piaciuto solo a me, ma solo per il rifacimento di una celebre scena sul gran finale conquista la mia stima incondizionata. Ero commossa fino al midollo già a metà.
My Generation – Il documentario sulla Swinging London in cui Michael Caine ci racconta come l’educazione e i sostegni statali abbiano aperto la strada alla sua generazione salvo poi in conferenza stampa sottolineare come sostenga la Brexit aka la via più veloce per fare in modo che il suo amato arcipelago torni classista come quando quelli come lui se nascevano proletari ci rimanevano per sempre.