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adolescenti problematici, Austin Bunn, Ben Foster, biopic, Dane DeHaan, Daniel Radcliffe, Elizabeth Olsen, film col dramma dentro, Ho visto la gente nuda, il disperato urlo silenzioso della fangirl in incognito, Jack Huston, John Krokidas, KIll Your Darlings, Michael C. Hall, omoaffettività, piangerone, tratto da una storia di poco falsa, tristezza a palate
Dici film biografico e già scatta in chi ti ascolta una reazione a metà tra la difesa preventiva e il pregiudizio bello e buono. Difficile infatti non essere scettici quando negli ultimi decenni il genere è stato ampiamente sfruttato e svilito, spesso con lo scopo esplicito di raccattare della facile visibilità durante la stagione dei premi cinematografici.
Che il risultato sia interessante (“The King’s Speech” non era male no?) o disastroso (nel caso abbiate letto le recensioni riguardo l’imminente “Diana”), rimane il fatto che i meccanismi stessi del racconto biografico sono lisi, irrigiditi da un uso così ripetitivo da renderli approcci ricorrenti di pura maniera, vuoti di significato.
L’esordiente John Krokidas che si mette alla regia di un biopic sulla beat generation, attraverso lo sbocciare stilistico e biografico di tre sue grandi firme non lasciava presagire nulla di buono. Invece Korkidas ha gestito la tirannia del tratto da una storia vera con realismo, senza rinunciare a un tocco artistico, realizzando un notevole film di stampo classico.
Non lasciatevi ingannare dagli strilli e dai proclama: Giovani Ribelli ha ben poco a che fare con l’Attimo Fuggente o altri film popolati da giovani ambiziosi e docenti motivati, se non qualche sfuggente omaggio (forse anche un po’ canzonatorio) proprio in apertura.
L’unico punto d’incontro è lo stile classico del film, che dalla sua impostazione temporale all’approccio narrativo, per non parlare della dimensione visiva, richiama un certo tipo di cinema molto comune qualche decennio fa, abbandonato in favore di approcci più radicali e radicati in generi specifici.
A parte i titoli di testa e poco altro, in Kill Your Darlings non si registra solo l’atmosfera di un’epoca in attesa di cambiamento storico (la fine della guerra) e culturale (l’inizio della travagliata strada per la conquista della libertà sessuale e creativa), ma anche l’atmosfera di un cinema d’annata, con una modalità apparentemente semplice nel seguire passo passo la spiegazione di quanto succede all’inizio e una solidissima concatenazione di relazioni causa-effetto che costruisce via via il climax emotivo del film.
Difficile parlare di veri e propri colpi di scena per un film che di fatto ricostruisce l’esperienza traumatica che coronò l’inizio della carriera di tre grandi penne americane, ovvero Jack Kerouac, William S. Burroughs e Allen Ginsberg, lasciando segni indelebili su ciascuno, tanto che ognuno finì per espiarla artisticamente in questa o quell’opera. La sceneggiatura di Bunn e Krokidas evita però il tranello più pericoloso, quello della ricostruzione stucchevole e idealizzata oltre quanto reso necessario dal mezzo cinematografico. Il film evita di ridursi al mero coming of age sessuale di Ginsberg, che rimane comunque il perno emotivo della vicenda. Sceglie invece di tessere una rete di rapporti tra protagonisti alimentata dalle omissioni e dalle rilevazioni che circondano Lucien Carr, una sorta di tragica musa ispiratrice di cui ogni personaggio e spettatore finisce per subire il fascino. Tutto in Carr sembra la tragica metafora di una musa capace di solo di ispirare senza alcun controllo sulle ricadute emotive dei geni che lo attorniano. Interessante anche la scelta di renderlo in tutto e per tutto una versione maschile di una qualsiasi fascinosa donna senza talento al fianco dell’Artista, stereotipo iconografico per eccellenza. Con i suoi occhi cerulei, i lucenti capelli dorati e un’eleganza che sembra accentuata dall’aura di sventura che porta con sè, Dane DeHaan buca lo schermo, rendendo più che credibili i tormenti amorosi che suscita ma riuscendo grazie al suo talento di attore a non perdere l’umanità del personaggio con il dipanarsi della trama.
Il Ginsberg di Daniel Radcliffe si sobbarca l’onere di tutte le tappe canoniche del giovane dei sobborghi borghesi che scopre pian piano la vita e la sessualità attraverso l’euforia e il dolore. Radcliffe è davvero ammirevole nel rendere autentiche l’ingenuità e la mancanza di esperienza che lo separano inizialmente dal resto dei personaggi, che colma a suon di esperienze dolorosamente formative. Quando si danno le ultime pennellate all’appassire della sua innocenza in un film che pone tra i temi centrali la scoperta del desiderio in un epoca in cui non si era omosessuali, bensì invertiti (e criminali), fa quel salto di qualità che rende assolutamente immeritate le continue allusioni ai suoi noti precedenti e al suo presunto tentativo di affrancarsi dagli stessi. C’è riuscito già da un po’ e questa interpretazione rientra nel novero di una carriera davvero brillante.
Uno dei meriti di un film gestito sapientemente e mai esagerato è quello di aver messo insieme un cast in grado di affrontare scene tanto emotivamente potenti rimanendo perfettamente calibrato. Michael C. Hall è anch’egli notevole in un ruolo vicinissimo al patetismo, senza dimenticare Ben Foster e Jack Huston, marginalizzati solo dalla durata esigua della loro presenza in scena.
L’aspetto migliore del film rimane però la regia, capace di rifarsi allo stile classico, risultando sempre all’altezza dello stesso, senza mai essere banale o ripetitiva. Fare un film così canonico risultando così convincenti quando si è costretti tra coming of age e titoli di coda su come è andata a finire per questo o quel personaggio è una scommessa notevole, forse molto più che distruggere ogni regola e affidarsi al proprio autocompiacimento artistico, schermando le debolezze dietro una fotografia leccatissima.
Non che il film non risulti moderno, ma lo fa in maniera sottile, aderendo al precetto del show, don’t tell in scene che colpiscono dritto al cuore e al cervello, come il menzionatissimo montaggio parallelo in cui Carr, Ginsberg e Burroghs affrontano ognuno il proprio momento iniziatico verso la vita adulta. Ancora una volta però il film è misurato ed evita di essere così intransigente su questa linea da perdere il gusto per il racconto della vita dei suoi eccezionali protagonisti.
Lo vado a vedere? Sì. Kill Your Darlings è un buon film biografico, con un’ottima storia per le mani da raccontare, cosa che fa rimanendo fedele all’umanità dei suoi protagonisti, senza rileggerli “profeticamente”, guardandoli attraverso la lente del mito. Davvero una bella pellicola, per non dire un esordio riuscitissimo.
Ci shippo qualcuno? Si è così impegnati a vedere cose dove non ci sono o dove vengono paraculamente solo suggerite che a volte si rischia di perdere il gusto del racconto dove non ci sono ship, bensì canon. Se poi siete un minimo emotivi, è praticamente una visione obbligata, perché riesce a restituire una versione sessualmente attiva ma comunque romaticamente angst dell’amor cortese verso la propria irraggiungibile musa. Tutto questo è reso ancora più drammatico dalla pesantissima componente di colpa e proibizione (e quindi, trasgressione) collegata all’illegalità delle pratiche omoerotiche in quegli anni.
Un amore negato dalla società e dal destino, alimentato dal genio creativo e dall’ispirazione, per non parlare del fatto che io vedendolo in “Chronicles” mai mi sarei aspettata che Dane DeHaan uscisse così bene dalla post-pubertà. Complimenti.
Se siete ancor più esigenti, contate che gli sguardi di Michael C. Hall metterebbero fine a un’era glaciale. Le vette di singhiozzi però ve le farà raggiungere Radcliffe, che si impegna anima e corpo in un’evoluzione affettiva che vi farà rivoltare i dotti lacrimali. Considerando la naturalezza con cui condisce la sua performance, le domande sul suo orientamento sessuale non smetteranno di fargliele finché respira.
Fin qui ho raccolto solo qualche considerazione che poteva farvi chiunque, adesso però vorrei esprimervi una mia considerazione da esperta del settore. Daniel Radcliffe con la zazzera e gli occhialetti neri in età post scolastica che gira per New York con un biondino con gli occhi azzurri sempre pungente e talvolta velenoso, con per giunta lo stesso doppiatore di Draco Malfoy? In altre parole, è un AU fatta e finita per quel vastissimo esercito di shippers che io, sinceramente, ho sempre guardato con stupore, perché, insomma, ma dove la vedevate tutta quella tensione sessuale tra Malfoy e Potter? In ogni caso non potete lasciarvelo sfuggire, specie considerando che DeHaan è la versione figa di Tom Felton adulto.
Coefficiente fazzoletto? Mentre scrivo queste righe, ogni tanto mi scappa un singhiozzo. Se vi piace commuovervi in sala, questo è il vostro film.