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Autocompiacimento registico, Brian d'Arcy James, delicate palette cromatiche, Howard Shore, John Slattery, Liev Schreiber, Mark Ruffalo, Masanobu Takayanagi, Michael Keaton, Oscar 2016, Oscars, Rachel McAdams, ritratto di relazioni umane prima che lavorative, Stanley Tucci, suore preti e altre cristiane malvagità, Tom McCarthy, tratto da una storia di poco falsa, venezia 72
Il giornalismo investigativo degli inviati sul campo e degli scandali scoperti e documentati pezzo per pezzo sta morendo. Lo dicono gli ultimi valorosi interpreti del genere e lo dicono le redazioni, che ai tempi del software automatici che scrivono articoli e della dittatura di Google News non possono e non vogliono investire in una forma tanto dispendiosa di reportage.
Se il giornalismo investigativo non verrà salvato dai freelance o dal crowdfunding, Il caso Spotlight sarà il suo maestoso epitaffio, un grande film sul fare giornalismo e l’essere giornalista come non se ne vedevano da decenni, basato su una storia vera dalle tinte forti e manipolato da un talento poliedrico e sfuggente come Tom McCarthy, attore di riempimento, sceneggiatore di pietre miliari come Up e ora regista in corsa per l’Oscar.
Fino a settimana scorsa una delle poche pellicole dirompenti presentate a Venezia 72 era la front runner per un’agguerritissima corsa alla statuetta di miglior film. Ora The Revenant sembra avviato a regalarci una serata monocorde, un replay delle scorse annate. Peccato davvero perché se si seguisse il criterio di innovazione e cinematograficità stretta che consegnò la vittoria a Birdman, stavolta la statuetta dovrebbe passare a un film come Spotlight.
Fa veramente piacere poter elogiare questo film per meriti cinematografici, perché sarebbe stato tutto sommato semplice confezionare un peana sulla chiesa cattolica statunitense che copre i propri ecclesiastici pedofili e non fa nulla per fermarli finché non viene scoperta e denunciata, calcando la mano sul dramma delle vittime e sul valore di quanti hanno portato a galla lo scandalo, quattro giornalisti del Boston Globe contro la comunità benpensante di Boston, che è poi il metodo che ha portato The Danish Girl ad accaparrarsi tante nomination.
Lo sceneggiatore e regista Tom McCarthy invece non ci sta e tira fuori dal cappello un’innovazione che poi è un ritorno, quello al cinema rigoroso e politico quanto il suo soggetto, dritto dritto dalle sabbie mobili in cui era rimasto impantanato dagli anni ’70 in poi. Ci si può concentrare sul forte impatto emotivo che questa storia portata su schermo con certosina meticolosità ha sullo spettatore, però io preferisco concentrarmi su quello che questa storia vera su schermo ha in più rispetto a tante cugine: un alto livello cinematografico unito a una sobrietà narrativa e visiva.
Spotlight infatti è lontanissimo dal chiacchiericcio glamour di certi adattamenti e arruola nel suo cast attori che possano lavorare con talento sul quotidiano dei loro personaggi, ritratti con una tale mancanza di enfasi che talvolta i loro dialoghi risultano pregni di quella banalità che vive nel nostro quotidiano. Non pronunciano discorsi memorabili e non sono più sottili e arguti della media. Fanno le domande (scomode) che ci aspettiamo e lottano per ottenere le loro risposte. Per esempio Mark Ruffalo è stato osannato per la sua perfomance, ma personalmente gli ho preferito un Michael Keaton che per il secondo anno di fila tornerà a casa senza un’Oscar che merita o la forza morale di un Liev Schreiber. Complimenti ancora a Rachel McAdams, che purtroppo ha una presenza più marginale rispetto ai compagni di set.
Un altro elemento che la forza delle tematiche trattate mette in secondo piano è la bellezza quotidiana ma elegiaca della Boston che fa da sfondo al film, un bellissimo e memorabile ritratto del carattere e dell’identità di una città. È un vero e proprio personaggio Boston con il suo quotidiano, le sue scuole, le sue chiese, la sua fiera comunità cattolica. Un personaggio di cui comprendiamo l’anima pacatamente ironica, tradizionale e morale, profondamente diversa dalle altre metropoli cinematografiche statunitensi, differente anche nella palette cromatica selezionata da Masanobu Takayanagi per la fotografia, che le dona una vena profondamente rassicurante e familiare, fino a rendere la presenza delle chiese e delle istituzioni opprimente, anche quando si staglia come sfondo alle inquadrature. Lieve ma incisiva anche la sottolineatura musicale del sempre ottimo Howard Shore.
Lo vado a vedere? Di fronte al cinema commerciale più roboante e alla proposta autoriale più edonistica, c’è un terzo filone della cinematografia statunitense che sta sfornando meraviglie, quello in cui convinvono Spotlight, Foxcatcher e L’arte di Vincere. Film che condividono una parvenza ordinaria e anonima, un tono narrativo pacato, ma che fotografano meglio di altri l’attualità statunitense, senza mai sfociare nel documentaristico. Film che non fanno grande clamore, ma che hanno una grande forza.
Ci shippo qualcuno? No.
Ci è piaciuto molto, da notare i titoli di coda che dimostrano che l’Italia è la patria sovrana del rimessaggio di cariche e poteri di ogni tipo